La bellezza non salva il mondo, no, ma deve essere salvata. Una lettura de "L'idiota" di Dostoevskij


 

L'idiota

di Fëdor Dostoevskij traduzione di Alfredo Polledro
Einaudi, 2014

pp. 606
€ 14,50 (cartaceo)
€ 3,99 (ebook)
(Disponibile gratuitamente per i clienti di KindleUnlimited)


Chi è l'Idiota? Si attraversano le dense seicento pagine di questo romanzo senza riuscire a rispondere a questo interrogativo. Solo a un genio verrebbe in mente di intitolare L'idiota un romanzo, perché tale qualifica non sembra presagire né ad un eroe né ad un antieroe, un inetto che tanta fortuna ha avuto nella letteratura novecentesca. Dostoevskij in una lettera ammette che l'idea embrionale del romanzo era quella di raffigurare un uomo totalmente e interamente buono, avvertendo - giustamente - questo obiettivo come una delle maggiori insidie per uno scrittore. Vi è l'idea inveterata, infatti, che i personaggi più fascinosi siano i "cattivi", gli ombrosi, i "maledetti", e lo stesso Dostoevskij, del resto, nella sua magnificente opera ci ha consegnato immortali ritratti di demòni e assassini.
Qui invece abbiamo il principe Myškin, un uomo puro, animato da sentimenti superiori di amore e compassione, incapace di mentire, un uomo "straniero", un uomo malato.
Myškin è un idiota nel senso che è affetto da idiotismo, ossia dal male caduco, l'epilessia, e nel senso che è portatore di valori che non sono attuabili nel mondo; la sua virtù, i suoi discorsi appaiono ridicoli, proprio in quanto "belli", "santi".
Quindi se siamo abituati a recitare la meravigliosa citazione "la bellezza salverà il mondo", scopriremo leggendo L'idiota, che il principe Myškin in realtà non pronuncia mai questa celeberrima frase che gli viene invece attribuita per ben due volte da due personaggi diversi.
È vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la «bellezza»? Signori, - gridò forte a tutti , - il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza. E io affermo che questi giocosi pensieri gli vengono in mente perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato; poco fa, appena è entrato, me ne sono convinto. Non arrossite, principe, se no mi farete pena. Quale bellezza salverà il mondo? (p. 378).

Il principe non risponde a queste domandi incalzanti di Ippolit. Lo guarda in modo enigmatico e non risponde.

E no, purtroppo, arrivati alla fine di questo strabiliante romanzo, ci vediamo costretti ad ammettere che la bellezza non ce la fa a salvare il mondo, ma deve essere salvata essa stessa. Ma andiamo con ordine, ecco la trama: il romanzo segue gli eventi che hanno non come protagonista, ma come enigmatico centro catalizzatore il principe Myškin, un giovane che appartiene ad una famiglia nobiliare ormai decaduta. Dopo un lungo soggiorno in Svizzera per curarsi dall’epilessia, Myškin fa ritorno a San Pietroburgo e lo conosciamo su un treno, dove incontra Parfen Rogožin, un giovane aggressivo ma affascinante, che gli racconta del suo amore per Nastas’ja Filippovna, una "donna perduta", una ex-mantenuta" di perturbante bellezza. Giunto a Pietroburgo, Myškin  incontra il generale Epančin, suo ultimo parente, e  conosce le sue figlie: Aleksandra, Adelaida e Aglaja, bellissima e misteriosa. A casa Epančin, Myškin fa ancha la conoscenza di  Gavrila “Ganja” Ardalionovic, che, pur amando Aglaja, vorrebbe sposare Nastas’ja per impossessarsi delle sue ricchezze. 

L'impressione è che, come sottolinea Vittorio Strada nel saggio in prefazione al volume, il principe venga catapultato in una serie di intrighi e intrecci già costituiti, ossia la storia di Nastas’ja Filippovna, degli Epančin e di Rogožin. Lui non è il creatore degli eventi, ma il testimone misterioso, che comunque porterà in un climax incalzante ogni storia al suo epilogo vorticoso e fatale. 

Il principe Myškin irrompe nella storia (o nella Storia) da un Eden (le montagne della Svizzera) e da una malattia che dona momentanei attimi di lucida coscienza, prima degli attacchi, attimi in cui tutto diviene chiaro e luminoso, comprensibile. Ricordiamo che lo stesso Dostoevskij era affetto da epilessia, che considerava quella malattia una felice infelicità.

«A un tratto, in mezzo alla tristezza, al buio e all’oppressione, il suo cervello sembrava accendersi di colpo, tendendo in un estremo impulso tutte le proprie energie vitali. In quell’attimo, che aveva la durata di un lampo, la sensazione della vita e il senso dell’autocoscienza sembravano decuplicare di forza. Il cuore e lo spirito si illuminavano di una luce straordinaria. Tutti i dubbi, tutte le ansie e le agitazioni sembravano quietarsi di colpo, si risolvevano in una calma suprema, piena di armonica e serena letizia, di speranza, di ragionevolezza e di penetrazione suprema».

L'aura che prelude agli attacchi di epilessia sono un cono di luce prima del buio, un momento in cui scompare il Tempo. Myškin, l'uomo buono, l'uomo incompreso e frainteso, deriso eppure ricercato spesso per consigli, il mite che ha momenti di febbrile ira su argomenti ideali, è un'immagine di un nuovo Cristo che riappare sulla Terra. È così, ma potrebbe non essere così. Dicevo che è impossibile rispondere alla domanda "Chi è l'Idiota?". 

È, cito ancora la bella prefazione di Strada, lo "straniero", nel senso che incarna la funzione straniante cara proprio ai formalisti russi. 

Con la sua totale diversità «defamiliarizza» (rende strana e quindi fa vedere con occhi freschi e nuovi) la realtà costituita, in questo caso la società feudal-borghese russa (ma in sostanza, ogni società del nostro tempo). (p. XX).

Le persone che sembrano riconoscerlo sono anch'esse straniere, ai margini della società: Nastas’ja Filippovna, Rogožin, Ippolit, Aglaja. Ma proprio queste figure, e le loro controverse azioni, pur essendo amati e "guidati" dalla luce e dall'amore infinito che emana Myškin, non riescono ad essere salvati da lui. Uno diventa assassino, l'altra è l'assassinata, Ippolit muore e Aglaja ha la vita spezzata. Infine, pure il principe, va via dalla storia (Storia) per tornare nelle braccia della malattia, una demenza stavolta senza scampo. 

La storia di chi resta sembra rimarginarsi, come se nulla fosse accaduto, quasi obliando la strabiliante apparizione dell'Idiota.

Proprio nella Parte Prima del romanzo, in una delle pagine per me più vibranti, il principe Myškin racconta la storia di un condannato a morte, che per almeno un quarto d'ora visse con la ferma convinzione che di lì a poco sarebbe morto (anche questa un'esperienza autobiografica traslata sulla pagina scritta).

Gli restavano cinque minuti di vita, non di più. Diceva che quei cinque minuti gli erano sembrati un tempo infinito, una immensa ricchezza; gli pareva di dover vivere in quei cinque minuti tante vite, che per il momento non era il caso di pensare all'ultimo istante, di modo che prese ancora varie disposizioni: calcolò il tempo necessario per dire addio ai compagni, e vi destinò un paio di minuti, poi destinò altri due minuti a pensare l'ultima volta a se stesso, e poi a guardarsi intorno per l'ultima volta. [...] Non lontano c'era una chiesa e il sommo del tempio, col suo tetto dorato, scintillava nel sole radioso. Egli si ricordava di aver guardato con tremenda fissità quel tetto e i raggi che ne sprizzavano; non poteva levar lo gsuardo da quei raggi: gli sembrava che fossero la sua nuova natura, e che di lì a tre minuti egli si sarebbe in qualche modo fuso con essi...L'incertezza e l'orrore di fronte a quel mondo nuovo che stava per sopraggiungere erano terribili; ma egli diceva che in quel momento nulla gli era più penoso di questo pensiero incessante: Se si potesse non morire! Se si potesse far tornare la vita, quale eternità! E tutto ciò sarebbe mio! Allora di ogni minuto farei tutt'un secolo, non ne perderei uno solo, di ogni minuto terrei un conto preciso, non dissiperei più nulla invano». (pp. 62-63).

Ma poi fu graziato e non riuscì a vivere con quell'intensità auspicata. L'oblio delle esperienze illuminanti, il ritorno alla consuetudine, il conformismo ad una società in cui non c'è spazio per le parole dell'Idiota.

Dostoevskij descrive con fulgida ironia gli eventi sociali, gli affetti intorpiditi dalla convenienza, il perbenismo. Questo modo vorticoso, a tratti ludico a tratti feroce, di dipingere la "buona società" affascinò a tal punto Marcel Proust che questi non solo scrisse in una lettera che alla domanda su quale sia il suo romanzo preferito, probabilmente avrebbe risposto L'idiota, ma parlò di questo sguardo dostoevskijano in una pagina de La prigioniera: «Madame de Sévigne, come Elstir, come Dostoevskij, anziché presentarci le cose nel loro ordine logico, cominciando cioè dalle cause, ci mostra anzitutto l’effetto, l’illusione che ci colpisce. Dostoevskij presenta nella stessa maniera i propri personaggi. Le loro azioni ci usano lo stesso inganno di quei paesaggi di Elstir in cui sembra che il mare sia il cielo».

L'effetto che produce Dostoevskij è a volte un mare calmo, come nei lunghi racconti del condannato a morte, ma quasi sempre una logorrea delirante dei personaggi, in cui le voci si intrecciano e sovrappongono, in una sinfonia in cui tuttavia riluce il dubbio che vi sia di fondo un'unica voce: quella multiforme e inesauribile del narratore.

Leggere L'idiota è affrontare l'immensità delle problematiche di Dostoevskij (l'Anticristo, il nichilismo, il socialismo, l'Apocalisse)  con una limpidezza che estasia. Tutto sembra stare in superficie, eppure tutto è profondo.

Deborah Donato