In nessun caso il donatore dovrà essere informato dell’atto specifico di decapitazione o del fatto che la donazione avverrà in vita. (p. 46)
La madrivora è uno di quei testi in cui l’ironia riesce a nascondere, almeno per un po’, il perturbante. Questo finché il macabro, il raccapricciante e il male non prendono possesso delle pagine e non escono fuori in tutta la loro potenza, spezzando quel sottile velo illusorio che aveva caratterizzato l’avvio della lettura.
Siamo nel 1907. In un sanatorio in
Argentina si svolgono quotidiane scenette dal sapore macchiettistico fra i
dottori, i quali si contendono le simpatie del direttore e le attenzioni dell’infermiera
Menéndez. Colti da questa leggerezza un poco spiazzante, noi lettori
proseguiamo con la tranquillità di chi riesce a dominare una lettura. Ecco allora che salta fuori il vero volto della Madrivora, quando si palesa il
progetto disumano che quegli stessi direttori dall’aspetto macchiettistico vogliono
portare avanti: indagare i confini fra la vita e la morte attraverso una truffa
di dimensioni colossali che sfida ogni rigore morale, ogni buonsenso etico. Nel
giro di poche pagine il tono della lettura cambia. I semi che Larraquy ha
sparso qua e là danno i risultati sperati e, dal nulla, in modo inaspettato, ci
troviamo coinvolti in questo macabro assassinio.
Ciò che colpisce del progetto, infatti, è
la naturalezza con cui si svolge. Quasi nessuno dubita del buon esito della
vicenda e le poche perplessità – “Andremo a sperimentare su persone ancora in
vita” – vengono liquidate in una frase: “Sono malati terminali, moriranno
comunque”. Assistiamo così a esperimenti sempre più feroci, sempre più
spietati, che altro non fanno se non incrementare la tensione narrativa e
metanarrativa.
Da lettori che vogliono immergersi in ciò
che stanno leggendo (che altro senso avrebbe la lettura altrimenti?), da
un lato condanniamo ciò che sta accadendo nel testo ma dall’altro vorremmo avere anche noi delle risposte. Vogliamo sapere anche noi come tutto questo andrà a finire. La fiction, si sa, concede a chi le si affida la
possibilità di compiere atti e vivere vicende che altrimenti sarebbe difficile
sperimentare nel mondo reale. È così che possiamo vivere una storia d’amore
bellissima nell’Inghilterra dell’Ottocento insieme a Jane Austen, o assistere
ai dubbi di Gregor Samsa che si risveglia insetto in un giorno qualunque. Allo
stesso modo, però, a disturbarci può essere la vergogna di sentirsi complici
del crimine che i dottori del sanatorio di Temperley stanno portando avanti. La
loro curiosità è la nostra, la loro mancanza di morale è la nostra, e
da qui a chiederci come ci comporteremmo noi in una situazione simile il passo
è breve.
È dunque la vergogna di provare simili sensazioni
a rendere perturbante la lettura del primo testo della Madrivora, il
quale sembra interrompersi all’improvviso per dare spazio al secondo racconto,
ambientato cento anni dopo e, quasi fino alla fine, apparentemente scollegato
dal primo. Qui il quadro cambia anche se non di molto. Il rigore non è
scientifico, non è per la curiosità medica che si compiono atti disumani bensì
per amore dell’arte. Il bisogno di riscatto, la necessità di lasciare traccia
di sé in un mondo che dimentica facilmente il proprio passato sono i motori
alla base delle decisioni prese dai due protagonisti, i quali si immergono
sempre più nel raggiungimento del proprio traguardo fino a rendere se stessi al
contempo il soggetto e l’oggetto della propria arte.
I due racconti, si è anticipato, non sembrano
legati fra loro se non per quanto avviene nel finale del secondo. Finale che, c’è
da dirlo, non mostra una connessione così forte da giustificare l’inserimento
di due storie di fatto separate sotto lo stesso titolo. Ciò che unisce i due racconti
è più l’atmosfera che le vicende, più il soggetto che la narrazione. In
entrambi possiamo ritrovare il male nella forma più pura, quello che
emerge dalle buone intenzioni che animano certe imprese e che può essere
riassunto nella massima machiavellica “Il fine giustifica i mezzi”. A tornare
infine è proprio la madrivora, una pianta al cui interno nascono delle larve che
finiscono poi per divorare la pianta stessa al fine di spargerne i semi e far
ricominciare così il ciclo. E tuttavia persiste la sensazione di aver letto due
racconti separati, uno di circa cento pagine e l’altro di circa cinquanta, i
quali sono stati accorpati per dare vita a un testo dal titolo unico.
Al di là di questa sensazione, in ogni
caso, La madrivora è un testo godibile, che sfida il senso comune e
impone tutta una serie di domande scomode a chi decide di darle fiducia.
David Valentini