"I momenti più belli della mia vita li ho dedicati alla pittura": il "Diego Rivera" di Voglino e Bertelè


Diego Rivera.
L’arte, l’amore, la furia

testi di Andrea Voglino
illustrazioni di Luca Bertelè
colori di Manuela Nerolini

Centauria, 2021


pp. 128
€ 19,90 (cartaceo)

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Se è vero che il dono della sintesi si rivela nelle parole come nelle immagini, la copertina di Diego Rivera. L’arte, l’amore, la furia merita un elogio particolare per la sua capacità di riassumere con efficacia non solo il senso del libro a cui appartiene – ovvero una graphic biography dedicata all’artista messicano da Andrea Voglino (testi) e Luca Bertelè (illustrazioni) – ma anche quello di un’esistenza esemplare condotta sotto le insegne della pittura, della passione e dell’impeto. Il padre del muralismo messicano, nato a  Guanajuato l’8 dicembre del 1886, portavoce della sua patria, del suo popolo e delle sue cause, vi è difatti raffigurato come un corpulento uomo di mezza età cinto in abiti borghesi di taglio europeo; dietro di lui, a stringergli le spalle in un abbraccio complice, ecco la Calavera Catrina (figura del folklore locale tipica del Dia de Los Muertos nonché dell’arte di José Guadalupe Posada) nella completezza del suo scheletro truccato e adorno di gioielli e paramenti variopinti. La mano di Diego si unisce alla sua all’altezza del cuore, mentre i rispettivi sguardi puntano in camera, verso lo spettatore, con l’indifferenza tipica degli idoli e delle icone.

Le due anime di Rivera, per così dire quella più moderna e quella più arcaica, quella più istituzionale e legata alle committenze e quella più istintiva e indifferente ai compromessi, convivono in una posa che sa di scatto fotografico per i posteri, a consegnare le ambivalenze, i contrasti e le contraddizioni di uno spirito indomito e di una vocazione totalizzante; soprattutto, di un uomo convinto che l’arte fosse nulla senza emozione. Ma c’è di più. Gli osservatori più attenti, o forse i più maliziosi, avranno la tentazione di riconoscere nell’atteggiamento di quella silhouette così inquietante e confidente anche una vaghissima allusione alle fattezze di Frida Kahlo, storica compagna d’arte e di vita: la donna con cui Diego, notorio sciupafemmine, si legò di un legame eccezionale e irripetibile, ma anche la stessa che grazie a una riscoperta di portata mondiale verificatasi negli ultimi decenni ha in qualche modo involontariamente eclissato – se non mortificato – l’identità del suo sposo, riducendolo quasi a un comprimario. Anche a questo proposito, il volume pubblicato da Centauria aiuta a fare luce su molti adombramenti entrati nella vulgata, restituendo al biografato quella tridimensionalità altrimenti sacrificata a certi appiattimenti di comodo.

È lo stesso Andrea Voglino a spiegare nella sua Introduzione il perché questo lavoro non vada inteso come un semplice omaggio ma come «un atto dovuto» (p. 5). Le ragioni sono numerose, ma ciò che più preme all’autore è andare controcorrente rispetto alle semplificazioni della figura di Rivera, ovvero a tutte quelle versioni che in un modo o nell’altro tendono a ridimensionarne la vicenda biografica e la ricerca artistica ricorrendo a pratiche etichette da manuale come “muralismo”, “comunismo” e “dongiovannismo”:

«parafrasando la definizione scherzosa che descrive ogni grande città messicana come un pueblo enorme, un paesino enorme, potremmo azzardare che Diego è stato un hombre enorme, un uomo vasto (…) Soprattutto, uno di cui non fidarsi mai: perché dietro la maschera dei modi schietti e dell’aspetto apparentemente inoffensivo potrebbe nascondersi qualche tiro mancino – una promessa non mantenuta, uno schizzetto senza pretese venduto a un prezzo da gringo o un attentato all’indissolubilità del tuo matrimonio. Raccontare Rivera significa raccontare quel groviglio di orgoglio, ingegno e cinico disincanto che è il tratto distintivo del Maestro di Guanajuato e più in generale di tutti i messicani» (p. 5).

Un compito non semplice, dunque, per svolgere il quale è stato necessario non solo ricorrere alla documentazione esistente, ma soprattutto fare attenzione a non tradire il personaggio ricorrendo a qualche strategico cliché, e anzi cercare di rendere conto il più possibile delle sue stratificazioni, ovvero di quei processi di evoluzione e di crescita personale e professionale a cui lo hanno condotto gli spostamenti e gli incontri, i successi e le delusioni, i trionfi e i fallimenti:

«per rendere giustizia a Diego Rivera» continua Voglino «non c’era altra strada che la sua. Così, nei pochi ma non pochissimi metri quadri di questo fumetto abbiamo provato a fissare tutto quello che ci è stato tramandato su di lui dalle cronache ufficiali: vita, opere, peregrinazioni, amori, amicizie, passioni, acciacchi, idiosincrasie, memorie, sfuriate (…) Alla fine del cammino, resta la soddisfazione di aver realizzato un racconto che è allo stesso tempo una biografia, un compendio di storia americana, un carnet de voyage e una dichiarazione d’amore verso un artista unico, di cui però oltre i confini patrii si parla sempre troppo poco» (p. 7).

Tutto inizia dalla fine, dunque, da quel 26 novembre 1957 in cui Città del Messico fu teatro del funerale del più celebrato artista messicano di sempre (e che peraltro aveva espresso la volontà di ricevere esequie private); un epilogo che è però l’occasione per guardare indietro come in un flashback lungo millenni, risalendo fino all’origine della civiltà dell’America Centrale. Da quella radice profondissima, di cui Rivera si ritrova a essere un virgulto esemplare anche dal punto di vista somatico, ha origine un percorso di formazione e poi di carriera che Voglino e Bertelè raccontano secondo cronologia, affidando all’efficace simbolismo (mono)cromatico di Manuela Nerolini il senso di una scansione per fasi e per tappe. Gli anni delle formazione dapprima in loco e poi in Europa (in Francia e specialmente in Italia), il ritorno nel proprio paese natale e la scelta dei murales come mezzo perfetto per raccontarne la storia, la militanza politica e l’impegno pubblico, le committenze dagli esiti discussi e scandalosi e la pratica mai abbandonata della pittura da cavalletto, le questioni private fatte di moltissime donne che furono di volta in volta amiche, amanti, mogli, madri, figlie, i conflitti e le rivalità di settore (storica quella con Alfaro Siqueiros): in poco più di cento pagine c’è tutto ciò che ha contribuito a fare di Rivera un mito vivente del suo tempo e una celebrità post mortem.

Questa graphic biography di Voglino e Bertelè non delude dunque le promesse del suo sottotitolo: la storia di Diego Rivera è presentata in tutte le sue accezioni artistiche, amorose e furiose, e più la si legge più ci si domanda come mai se ne parli effettivamente così poco, perché se ne confini l’opera a un movimento comunque importantissimo e a che pro se ne menzioni la figura quasi in senso accessorio rispetto a un’altra vicenda estetica e biografica. Se nelle intenzioni degli autori c’era proprio quella di colmare un vuoto, c’è da dire i due sono riusciti a farlo omaggiando il personaggio senza citazionismi spiccioli ma nell’impostazione generale del loro lavoro a quattro mani, ovvero utilizzando proprio le risorse della narrazione a fumetti come un medium a tutti gli effetti popolare, capace, come i murales, di rivolgersi a chiunque in modo trasversale e transitivo. I suggerimenti bibliografici in coda al volume sono un invito ulteriore ad approfondire questa personalità così esemplare e a confermare il senso della sua persistenza nella cultura e nella storia, e non solo in quelle messicane. Perché come si legge nella didascalia dell’ultima tavola raffigurante il volto monumentale eseguito dallo scultore Antonio Castellanos Basich, “Diego Rivera vive…”: proprio nello sguardo fiero e pensoso del pittore, muralista e attivista politico – così simile nella fisionomia al Monumento 1 di La Venta, il famoso manufatto olmeco del IX secolo a. C. – si incontrano come in un crocicchio del tempo la visione retrospettiva di sé, il sentimento di un’epoca che si è chiusa con la sua morte e la sfida nei confronti di un futuro chiamato a raccoglierne ancora, e in vario modo, l’eredità.


Cecilia Mariani