Quando le "Intolleranze elementari" diventano intollerabili. Elisabetta Darida ci offre una raccolta di racconti che si fa romanzo corale

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Intolleranze elementari
di Elisabetta Darida
L'Erudita, dicembre 2021

pp. 166
€ 20,00 (cartaceo)


Di intolleranze alimentari si parla ovunque, negli studi dei medici, nelle palestre, nei centri estetici, alla macchina del caffè tra colleghi, nelle chat di amiche. Chi è intollerante al lattosio, chi al glutine, chi al nickel, chi ai lieviti. Disturbi che rendono complicata la vita. Ma ci sono tante altre intolleranze, piccole, quasi invisibili, diffuse perché annidate tra i luoghi comuni di cui ogni giorno ci nutriamo, che possono diventare intollerabili. E si perdoni il gioco di parole. Sono le "Intolleranze elementari", nel senso di apparentemente di poco conto, di cui Elisabetta Darida narra nel suo libro. Un volume che unisce 20 racconti, scritti in prima persona, nei quali altrettanti personaggi, legati tra loro da fili più o meno solidi, mettono a nudo la propria anima, narrando al lettore uno spicchio di vita personale da cui si evince l'intolleranza di cui il personaggio stesso è talora carnefice, più spesso vittima.
Donne maltrattate dal proprio uomo, tema purtroppo sempre attuale, mogli tradite, gran signore che guardano dall'alto in basso l'ex colf a cui il figlio professore ha comprato un appartamento nello stesso palazzo da lei un tempo tirato a lucido, donne che amano altre donne, ragazze che vogliono vivere come le coetanee ma che rigide usanze religiose condannano a morte, uomini ingabbiati in professioni mai davvero amate, genitori che vivono come una sconfitta il fatto che i figli non seguano le proprie orme professionali, giovani che si innamorano di ultraottantenni ricchi e con poca vita davanti, ma ancora in grado di dare amore. Tutti vittime di intolleranze che soffocano la personalità e, esattamente come il sottile velo nero rappresentato in copertina, impediscono di vedere il sole.
Il fil rouge che unisce i volti e le voci di questo libro è un palazzo romano, un grande condominio signorile, al quartiere Prati da cui la vista spazia sul Tevere e sui tetti della città. Un caseggiato che visto da sotto assomiglia a una grande nave. E sebbene lo spunto iniziale non sia nuovo (l'idea di rendere protagonisti condòmini che condividono scale e pianerottoli è già presente in molta letteratura), i racconti di Elisabetta Darida non mancano di una certa freschezza e originalità.
A parte qualche personaggio tratteggiato forse con toni un po' convenzionali, i racconti si stagliano per la notevole capacità di coinvolgere il lettore e farlo sentire parte del microcosmo umano rappresentato dagli abitanti del palazzo o da coloro che in qualche modo lo vivono e lo frequentano. I continui rimandi intertestuali, i personaggi che compaiono qua e là in più racconti, contribuiscono a dare un tono unitario al libro che prende i toni del romanzo corale, ancorché costruito su monadi narrative.
La lingua che la scrittrice utilizza merita una notazione a sé perché la Darida, proprio attraverso il linguaggio, sa immedesimarsi in ogni personaggio, portando il lettore a farsene un'immagine interiore proprio grazie alla voce, un espediente letterario interessante: e se la signora Serafina parla l'italiano cadenzato dal dialetto del Sud che si attaglia perfettamente a una donna non più giovane che non ha potuto studiare, le fa da contraltare la lingua antiquata, d'altri tempi utilizzata dalla signora Castellini Guarneri, così fiera del suo doppio cognome e delle sue origini altolocate. Così come allo slang dei giovani del palazzo, si contrappone il linguaggio esperto e forbito del medico, che voleva fare l'artista, o ancora il romanesco succoso e pregno del ragazzo delle consegne o l'italiano poco masticato degli immigrati, il linguaggio amicale delle coinquiline o le parole cariche di erotismo della donna innamorata, che sia di un uomo o di un'altra donna. Un caleidoscopio linguistico, specchio della società, che rende piacevolissima la lettura dei diversi racconti. 
Nel libro la Darida sfoggia una certa capacità narrativa in grado di viaggiare su toni umoristici (indimenticabile la scena di pag. 89, che non racconterò, davanti alla quale ho riso fino alle lacrime) e di alzarsi fino a vibrazioni tragiche, in particolare nel racconto che ha per protagonista la giovane pakistana Adila, tratto paro paro dalla cronaca, un racconto che forse si inserisce un po' più faticosamente nel contesto del libro perché in questo caso l'intolleranza non è esattamente elementare.
L'assunto di tutti questi racconti-confessione, nei quali il protagonista cerca la partecipazione del lettore mettendolo a parte di molta intimità, è che la vita è già di per sé complicata e lo sarebbe meno se ognuno di noi facesse attenzione ai piccoli gesti, alle parole, agli atteggiamenti che mette in atto di fronte alla diversità, a ogni possibile diversità. Perché è la difformità rispetto a quella che ognuno di noi ritiene la "normalità" che fa scattare l'intolleranza. E sono proprio i nostri comportamenti nei confronti di chi, per qualsiasi motivo, riteniamo si comporti "fuori dal tracciato" a determinare cattiverie e negatività e ad alimentare un vortice di intolleranze che poi diventa irrefrenabile. Dalla vicina che spia dal pianerottolo al badante che, invece di badare, usa la casa in cui è ospite come alcova, dai tradimenti dei mariti fedifraghi o peggio violenti, ai genitori che non accettano le scelte dei figli, siano esse di lavoro che di orientamento sessuale. Solo per citare qualcuno dei personaggi che compongono il puzzle di "Intolleranze elementari".
Il libro di Elisabetta Darida serve proprio a questo, a farci riflettere, a partire da un piccolo consesso umano, quale può essere quello di un palazzo, su quanto noi stessi contribuiamo a rendere la vita degli altri un po' più complicata. E viceversa quanto i nostri simili possano renderla difficile a noi. Un libro che ha qualcosa da dire in più anche e soprattutto dopo questi due anni di pandemia che, lungi dal farci uscire migliori, in certi casi hanno esacerbato alcuni tratti umani non propriamente positivi.

Sabrina Miglio