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Io, di me, a me, me, per me, con me etc etc etc: una brevis historia dei nuovi esibizionismi declinata da Guia Soncini

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L’economia del sé.
Breve storia dei nuovi esibizionismi

di Guia Soncini

Marsilio, 2022

pp. 192
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Qualunque sia l’origine dell’espressione, “avere il prosciutto sugli occhi” significa, essenzialmente, almeno due cose: 1) non ci vediamo tanto bene, anzi non ci vediamo affatto e 2) non siamo il prosciutto in questione. Pare ovvio, ma repetita iuvant: affinché il salume ci sia d’ostacolo è necessario che esso sia altro da noi, un corpo estraneo che, col succulento spessore che gli è proprio, ci renda praticamente orbi foderandoci le palpebre meglio che il tappezziere. Il prosciutto funziona così: sa renderci sazi (basta aggiungere pane a companatico), grassi (dall’uso all’abuso è un attimo), epperò, talvolta, anche ciechi.


Ecco: leggendo L’economia del sé, l’ultimo libro di Guia Soncini appena pubblicato da Marsilio, la fede in questo vecchio e rustico adagio viene irreversibilmente meno o subisce, per così dire, un progressivo cambiamento di stato. Fa proprio come il lardo: dapprima si scioglie nella padella arroventata per ungere al meglio la pietanza, poi si ricompatta come adipe di nostra pertinenza. La certezza del motto popolare prende a vacillare, si diceva, perché ormai, come spiega l’autrice, quel prosciutto fa parte della natura di ogni essere umano di questo tempo, ovvero di chiunque sia dotato di un telefono con fotocamera incorporata. Difatti, da quando abbiamo la possibilità di scattare e autoscattare all’infinito per poi condividere ogni istante della nostra esistenza sui social network che più ci aggradano, non siamo altro che salumi esposti nel bancone della gastronomia: appesi a coscia intera, pronti a flirtare con lame di coltelli e di affettatrici, già porzionati in comode vaschette trasparenti. Ma non basta: così facendo siamo, nel contempo, anche il nostro stesso pizzicagnolo. Merce e mercanti, dunque, nonché potenziali clienti di botteghe altrui. Lo siamo tutti, nessuno si senta escluso. E se ancora v’è chi non lo veda, proprio questo libro – questo prosciutto sub specie cartacea – sarà l’oculista perfetto per ogni rara e residua forma di miopia e astigmatismo.


La metafora del prosciutto non sembri casuale o arbitraria: è la stessa autrice a utilizzarla e a spiegarne l’origine nel Prologo di questa Breve storia dei nuovi esibizionismi, con un aneddoto personale in cui il primo bene di consumo assimilato al salume era proprio – esattezza della sorte o allineamento astrale – un libro. Un consumo culturale, d’accordo, ma pur sempre un oggetto con un prezzo, dunque in vendita, e per il quale poteva ben valere l’esortazione resa nota da un celebre spot televisivo con la Loren protagonista, una réclame che avrebbe fatto scuola nella categoria “piazzamento degli affettati” grazie al tormentone della sua parola chiave: accattatevill’. Solo che la cosa, già “in quel tempo” – correvano gli anni Novanta del secolo scorso, per la precisione il 1992 – non sarebbe mica finita lì, con la diva del cinema che si prestava dietro compenso a sponsorizzare il Parmacotto e a rilanciare sul piccolo schermo il binomio prodotto + testimonial di successo. Chi poteva immaginare che qualche decennio dopo, e in pochi semplici step, ciascuno di noi avrebbe potuto aspirare a essere la Sophia di turno? Sarebbe bastato magnificare in autonomia la propria quotidianità, esibire corpo e mente (il cosiddetto physique du rôle e il cosiddetto penzierino, ad averceli entrambi, ma – e qui sta il punto – anche no) e taggare ogni entità taggabile sull’orbe terracqueo (c’est à dire la cosiddetta qualunque).


Che mondo sarebbe – questo, il nostro, il “giorno d’oggi” – senza esibizionismo? Attenzione: come ci correggerebbe il Quelo di Corrado Guzzanti, la domanda è malposta. Perché l’esibizionismo non è certo una novità dell’ultim’ora, fa parte dello specifico umano e, per come stanno attualmente le cose, è addirittura inutile chiedere lumi sul suo primato culturale e politico dubitando che si tratti di un quid più di destra che di sinistra (le quali, mai come in questo caso, pari sono). L’interrogativo che davvero ci riguarda, spiega l’autrice, è casomai quello sulle nuove manifestazioni dell’egocentrismo, ovvero su come la superficie massimamente sensibile e suscettibile del nostro ego abbia reagito alla possibilità di esserci – esserci sempre, dovunque, comunque, per chiunque, nella buona come nella cattiva sorte – offerta dalle nuove tecnologie. Risposta: si è messa in vetrina – in special modo quella di Instagram, social nato per immortalare la spontaneità dell’istante e presto divenuto l’incrocio tra un circo e una piazza del mercato – e ogni volta che ne ha avuto l’occasione ha tratto vantaggio, sponsorizzato, scroccato o battuto cassa. Ha fatto, per l’appunto, “economia del sé”, ispirata da chi, pur galleggiando nel mare salato del “così così”, era riuscito a fare tutte e tre le cose insieme fino a divenire archetipo di un’epoca (nello specifico italico il principale nome di riferimento è, per l’autrice, quello di Chiara Ferragni, di cui nel libro, insieme con marito e prole, si parla diffusamente).


Così, senza nessun bisogno di eccellere in alcunché, senza alcun pegno di particolare bellezza o bravura da pagare in cambio del successo e soprattutto senza nessun passaggio cronachistico o televisivo che ci imponesse al pubblico come individui degni di nota – dunque, in ultima analisi, senza mai passare attraverso i buratti e le crune di ago della critica legittimante ma lasciando l’ardua sentenza ai cuoricini e alle visualizzazioni – tutti abbiamo potuto creare la nostra rassegna stampa (i nostri post e i commenti sotto i nostri post) e programmare in autonomia il nostro palinsesto (reportage/ dossier/ streaming perpetuo, amen e così sia). Se poi siamo stati abbastanza bravi – se cioè, nella nostra aurea mediocritas, abbiamo convinto qualcun altro del nostro presunto diritto all'attenzione, alla gratuità degli omaggi e alla proporzionale parcella – gli sponsor sono arrivati da sé. E tanto peggio per chi, al giorno d’oggi, non ha avuto la ventura di essere sufficientemente instagrammabile o non si è dedicato con sufficiente abnegazione a questo nuovo lavoro a tutti gli effetti usurante (è ciò che Soncini definisce l’essere delle “Chiara Ferragni d’insuccesso”, e sì che i nostri genitori, brava gente, hanno speso tanto per farci istruire).


In sedici capitoli che si gustano con l’ingenua golosità con cui si consuma un gelato al veleno, Guia Soncini descrive come meglio non si potrebbe l’evoluzione (l’aggiornamento? l’upgrade? fate un po’ voi) di fenomeni che decenni fa erano in boccio e ora infestano soavemente e impunemente la nostra quotidianità e le nostre bacheche come una gramigna necessaria; la quale erbaccia, non paga di essere diventata parte del paesaggio, pretende di venire curata e vezzeggiata quasi fosse la più esotica e squisita delle infiorescenze. Tra volenterose rinunce alla privacy, invadenze assortite e pretese di attenzione anche a proposito della più insignificante minuzia che abbiamo testé magnificato con uno scatto o un giro di frase ad hoc, ecco che l’urgenza di dire la nostra sul fatto (ma anche sul morto, meglio se illustre) di giornata va a braccetto con il consiglio per l’acquisto che più ci si addice e che più potrebbe soddisfare gli appetiti dei nostri seguaci: una tisana drenante (la ritenzione idrica è il contrappasso del prosciutto che davvero ci accattiamo), un accessorio di grido (e magari al grido di “Hey guys!” e con il proprio marchio), un set di materassi e cuscini (diamo lauree ad honorem a Giorgio Mastrota, propone Soncini). E ancora: un orologio, un completino intimo, un robot da cucina, un dentifricio, un kit per il trucco, una seduta dal dentista, dal commercialista, dallo psicanalista. Un biglietto per uno spettacolo a teatro, un film al cinema, una mostra al museo (dove peraltro andiamo a fotografarci solo quando ci sono gli ingressi liberi perché l’arte è una scenografia aggratis che fa colore e, manco a dirlo, aiuta a vendersi di bene in meglio). Vinto ogni imbarazzo (anche quello della scelta), non resta che l’onnipresenza, una pulsione che l’autrice fatica a concepire disgiunta dall’ambizione a fatturare. Al punto che il tornaconto – e più di beni che di immagine – appare come la ragione più plausibile per cui le persone decidono di aprire e gestire un account (oltre che la preoccupazione che il resto del mondo sospetti che non esistiamo se non gliene forniamo prove a getto continuo). Un’interpretazione che non contempla una fruizione gratuita e senza troppi secondi fini, e che ci vuole tutti invischiati nel grande blob della messa in mostra, dello smercio e dello sputtanamento autogestito: e vissero tutti esibiti e venduti e comprati e contenti (punto interrogativo?). 


Libro che ci ricorda in ogni pagina l’inno di un mondo a cui piace misurare il valore e il potere dei suoi abitanti in followers & likes ma soprattutto in conseguenti omaggi e bonifici – un inno che recita «comprami, io sono in vendita, e non mi credere irraggiungibile», come comanda la hit di Viola Valentino già dal 1979 – L’economia del sé non fa (perché non può, non deve e non vuole farne) sconti a chicchessia (ma rare eccezioni confermano pur sempre la regola). L’autrice, coinvolta nel gioco come chiunque altro – «io sono voi, sono proprio come voi» scrive «e voi, d’altra parte, siete il mio specchio» (p. 189) – descrive con maestria il labirinto di superfici riflettenti in cui siamo entrati con un click e in cui ci aggiriamo (più o meno divertiti, curiosi, annoiati, compiaciuti, occhiuti, disorientati) da alcuni anni a oggi. Proprio per questo l’immagine prescelta per la copertina – un particolare dell’opera Lips (2013) dell’artista e fotografa (nonché ex modella) Shae Detar – è così azzeccata. Nel primissimo piano di quel viso femminile, replicato più volte come in un caleidoscopio e con un focus mirato sulle labbra truccate, c’è la quintessenza di questa Breve storia dei nuovi esibizionismi: una bocca chiusa ma pronta a spalancarsi e a farsi legione, una bocca che, non appena presa la parola, saprebbe senza dubbio cosa dire proprio perché – con un opportunissimo effetto eco – non avrebbe da dire nient’altro che «io» o (nei momenti più autocritici) la sua più prossima variante declinata al genitivo:


«di me, di me» – scrive Soncini verso la fine del libro citando da La terrazza (1980) di Ettore Scola – «è la battuta di film che ripeto più spesso, e il rigo che avrebbe da solo sostituito tutte queste pagine s’io avessi il dono della sintesi» (p. 161).


Per nostra fortuna, invece, le pagine sono quasi duecento: abbastanza perché ci stia dentro la spietata descrizione del mondo “stupido, rozzo, dittatoriale, senza gioia che noi stessi siamo creando”. Parola di Natalia Aspesi direttamente dalla fascetta di copertina, e non a caso è proprio alla giornalista che va la dedica del libro: «a Natalia, che mi manda i più raccapriccianti video di TikTok costringendomi a rendermi conto di come ci esprimiamo noi abitanti del presente». Poteva forse esserci engagement migliore?


Cecilia Mariani