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«La follia era tutto ciò che non faceva comodo agli altri»: la storia del manicomio di Ancona in “Le case dai tetti rossi” di Alessandro Moscè

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Le case dai tetti rossi

di Alessandro Moscè
Fandango Libri, aprile 2022

pp. 187
€ 17 (cartaceo)
€9,99 (ebook)


A causa della vendita della casa della nonna materna, Alessandro Moscè compirà un viaggio nei ricordi dell’infanzia, legandosi istintivamente alle vicende del manicomio di Ancona; infatti, è proprio vicino all’abitazione della nonna che si trovava la struttura manicomiale.

Il manicomio di Ancona era una piccola città con centinaia di ospiti. I tetti rossi, del colore del sangue, accoglievano i barboni, i malnutriti, gli ubriaconi, chi era tornato dalla guerra frastornato, con una pallottola conficcata da qualche parte, chi non riusciva ad alzarsi dal letto, chi era nato straccu, stanco […] (p. 13)

Da questa motivazione Moscè affronterà le vicende della psichiatria italiana, dei malati e dei “mentecatti” (p. 7) ricoverati in manicomio. L’io parlante e biografico trascorreva, infatti, le estati presso la casa della nonna e, dunque, legati alla spensieratezza e alla leggerezza di quei momenti, ci sono anche i ricordi di quando, affacciandosi alla finestra, vedeva i malati in giardino oppure quando si recava nei suoi dintorni per spiarli, ovviamente con l’innocenza di un bambino.

Il distacco forzato dalla casa dell’infanzia diventa quasi una soglia temporale attraverso cui riesce a viaggiare nel tempo fino a quelle estati di amicizia, affetto e curiosità; momenti in cui le strutture manicomiali italiane stavano subendo numerosi cambiamenti, a causa dell’emanazione alla Legge Basaglia che cambiò in modo irreversibile la funzione degli ospedali psichiatrici, la cura e la gestione delle persone affette da disturbi mentali.

Sono tornato indietro con curiosità e commozione. Allo sfolgorio e al sipario delle ombre di via Cristoforo Colombo i miei occhi prestano un’attenzione tesa. […] Passeggio nell’area dell’ex manicomio seguendo un percorso che non c’è. Sento il canto delle cicale ed è come se mi fossi perso. (p. 9)

È attraverso i ricordi del giardiniere del manicomio, Arduino, che si scopriranno tutti i protagonisti di questa storia: persone traumatizzate, abbandonate e recluse che, però, avevano, e hanno, ancora oggi molto da raccontare, come nel caso di Nazzareno, un uomo bonario e dolce, che era diventato quasi la mascotte del manicomio. Internato nel padiglione dei cosiddetti “addomesticati”, perché considerato non pericoloso per sé e per gli altri, Nazzareno aveva un solo e grande desiderio quello di vedere Bernadette, la Santa francese, e per questa sua “ossessione” fu internato. Non fu solo un ospite ma anche un inserviente; era tra i pochi, infatti, che avevano il permesso di uscire per fare alcune piccole commissioni all’ospedale. O, ancora, come nel caso della paziente Adele, che rivive, non solo attraverso le parole di Arduino, ma anche della nonna, la quale racconta che la vedeva spesso al mercato rionale del suo quartiere. Adele, abbandonata da bambina, non si ricordava niente della sua vita, se non, secondo lei, di aver visto Mussolini, nei pressi di Civita, far visita alla sua amante di allora.


Le memorie dei pazienti sono conservate nelle parole del giardiniere che curava, non solo le piante e i fiori del cortile, ma anche i pazienti stessi perché, con il tempo, Arduino riuscì a conquistarsi un posto nei loro cuori come confessore e consolatore, anche quando le cure psichiatriche recavano più danni che benefici. I bagni di ghiaccio, gli elettroshock e le terapie insuliniche erano, infatti, la norma. Arduino era lì, pronto ad accogliere e sollevare le loro sofferenze.

Il manicomio non era per il giardiniere, un luogo di sconosciuti da temere. Arduino divenne il confidente di chi lo avvinava tormentato da desideri o consumato da nostalgie, incubi, elucubrazioni, deliri. Non ha mai maltrattato nessuno, non ha mai rifiutato un aiuto. Ha consolato uomini e donne che senza una ragione si fermavano nei giardini. (p. 16)

La svolta per il manicomio di Ancona fu, però, la combinazione della “rivoluzione” portata dalla legge Basaglia, e l’arrivo, come direttore, del professor Lazzari che portò una ventata di aria fresca in quella struttura sul modello dello psichiatra veneto. Complice anche la nuova veduta medica, Lazzari, insieme agli altri psichiatri, al cappellano e a Suor Germana, una figura centrale nella gestione dell’ospedale, donò una nuova organizzazione all’interno del manicomio. Abolì, sulla falsariga di Basaglia, le terapie fin allora applicate e introdusse nuovi modi per gestire i disturbi psichiatrici, come i laboratori d’arte o lo sport, primo fra tutti il calcio.

 Nonostante il nuovo modo fosse un beneficio per i pazienti, la paura di chiudere queste strutture attanagliò molti di loro; infatti, la maggior parte dei pazienti la considerava la propria casa, avendo vissuto quasi tutta la vita in manicomio e non avendo, quasi sempre, nessun parente pronto ad accoglierli di nuovo.

Il viaggio, percorso da Alessandro Moscè in Le case dei tetti rossi, offre, sicuramente, uno spaccato novecentesco, così vicino a noi ma che a tratti ha il sapore di qualcosa di molto lontano; sembrano, infatti, molti distanti gli anni in cui i manicomi erano operativi a pieno regime, eppure alcuni di essi chiusero solo agli inizi degli anni Novanta. Il racconto di Moscè è un racconto di alienazione e smarrimento, ma anche d’umanità e progresso, imperniato di una grande solidarietà umana come dimostrano le figure del professor Lazzari, del suo allievo Fermenti, di Arduino e Suor Germana. La carrellata, dal sapore non sempre dolce, di personaggi, raccontata nei loro gesti, ironici e non di rado violenti, dimostra la profonda solitudine di queste persone che furono per lungo tempo i reietti della società, perché non solo accoglieva i malati mentali, ma anche, ad esempio, i barboni e alcolizzati; persone, dunque, che dovevano vivere separate da tutte le altre, senza che nessuno le curasse di qualche attenzione o premura.

Le case dai tetti rossi, nonostante racconti della struttura psichiatrica di Ancona, è un racconto che può valere anche per altre realtà psichiatriche. L’umanità, narrata in stile semplice ma non semplicistico, mostra una rivoluzione italiana che arrivò, forse, troppo tardi, ma che ridette, finalmente, dignità ai malati mentali.

Oltre le persone, sono protagonisti i luoghi che diventano porte d’accesso alla memoria di un tempo passato, ma in qualche modo sempre vivo. In primis il manicomio di Ancona, con la sua struttura, quasi unica, e poi la casa dei nonni materni, Altera ed Ernesto, nella quale si riesce quasi ad assaporare un’Italia che, forse, non c’è più: quella dei piccoli momenti famigliari, dei grandi pranzi della domenica e della spesa al mercato settimanale.

L’ex manicomio è un luogo remoto che metto a fuoco ma nell’immaginario delle suggestioni non si lascia prendere. Un luogo vicinissimo, quasi lo avessi abitato di persona. I protagonisti hanno il fascino del tempo che passa, lo stesso di nonna Altera e di nonno Ernesto. ( p. 149)

E così, ad alternarsi ai capitoli dedicati alle vicende manicomiali, troviamo l’Inframezzo, uno spiraglio aperto sulla quotidianità di una famiglia: brevi, anzi brevissimi, ritratti sul rapporto unico tra nonni e nipoti. Forse qualcuno potrà anche riconoscersi in quell’affetto e in quei rimproveri tanto bonari.

Giada Marzocchi