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In "Quattro stagioni per vivere" la metamorfosi di Mauro Corona. Un nuovo modo di vivere la natura e la montagna. Come un respiro, un animale, larice, vento, neve...

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Corona-Quattro-stagioni-per-vivere


Quattro stagioni per vivere
di Mauro Corona
Mondadori, marzo 2022

pp. 284
€ 19,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Fuggivo braccato, ma mi sentivo l'uomo più libero del mondo (p.85)
L'ultimo romanzo di Mauro Corona, "Quattro stagioni per vivere" ci porta in un tempo indefinito, quando per annunciare il proprio arrivo a un amico non si manda un messaggio whatsapp, ma basta un colpo di fucile rivolto verso il cielo. Un libro diverso da quanto Corona ha scritto finora, un romanzo che diventa il manifesto di un nuovo modo di intendere la vita e il proprio passaggio sulla Terra. In questo lungo e affascinante racconto, immerso nella natura, lo scrittore mette in scena la sua conversione, da cacciatore a cacciato, da dominatore a elemento della natura, esattamente come "un camoscio, un larice nel vento, una lepre sotto la neve" (p. 54).

La trama è presto detta: Osvaldo, il protagonista alter ego di Corona, o per meglio dire Svalt, come è chiamato nella lingua degli abitanti di Erto, commette uno sgarro di caccia: per accontentare la madre anziana e ammalata che desidera una tazza di brodo di camoscio, osa rubare un esemplare appena ucciso dai temibili gemelli Gianco e Gildo Legnole, grandi, grossi, ubriaconi, forzuti e ottusi. I quali non gliela perdonano e gli giurano eterno odio e soprattutto gli promettono di farlo fuori. Svalt, per sfuggire a questa bruta condanna, scappa tra i suoi monti dove troverà rifugio e tanto tempo per riflettere.
Il resto del romanzo è il racconto di come Svalt, diventato improvvisamente preda, da cacciatore qual era, trascorra le sue giornate nel silenzio immenso delle montagne che sanno riempirsi di suoni meravigliosi, le voci degli animali, e terribili, come il frastuono delle valanghe che squarciano il terreno. Da novembre all'autunno successivo, Svalt trascorrerà un intero anno da fuggitivo, sporco, inselvatichito, animalesco, imparando a sopravvivere al gelo dell'inverno, a godere del rifiorire della primavera, a riscaldarsi al tepore dell'estate e a inebriarsi dei colori dell'autunno. Tra una grotta e l'altra, un riparo improvvisato e l'altro, dormendo su frasche di pino mugo, nutrendosi di carne secca, abbeverandosi alle sorgenti o spaccando i ghiaccioli per stillarne acqua. In compagnia del cane Papo, degli animali del bosco, camosci, galli forcelli, urogalli, cuculi, picchi, rapaci, e del fuoco, grande amico e potente aiuto senza il quale non si potrebbe vivere. Con qualche rara scappata in paese, avvisando, con quel colpo di fucile, l'amico Guido, per rifornirsi di materie prime e per qualche maldestro tentativo di far pace con i gemelli Legnole che per tutto il libro non smetteranno mai di dargli la caccia mettendo in atto crudeltà e atrocità di vario genere.
Lo stupore che pervade il lettore è come Corona riesca a tenere attentissima e alta l'attenzione, anche nelle lunghe pagine dedicate soltanto alla natura nella quale Svalt, in maniera completamente panica, si immerge, all'inizio quasi senza accorgersene e poi sempre più convintamente, sempre più consapevolmente.
Mi ero reso conto, quella sera, che mi mancava l'aria aperta, i boschi scheletriti, l'inverno, le notti interminabili al tepore del fuoco dentro una spelonca. E l'inquietante silenzio della montagna, solo ogni tanto rotto da grida di animali disperati o dai rantoli tribolati di uccelli notturni. E, seppur duole confessarlo, dovevo ai Legnole, alla loro ottusa ferocia, alla brutale ignoranza la scoperta di una vita nuova.
Fatta di tramonti rosso fuoco e blu, di stelle tremolanti nel cielo (che solo chi ha passato qualche notte in alta montagna e ha visto quel firmamento baluginante sa riconoscere nelle parole emozionate di Svalt-Mauro), di animali che paiono contenere in sé le anime dei trapassati, delle voci che chi vive solitario attribuisce anche alle rocce o ai fili d'erba. Fatta soprattutto del grande freddo che d'inverno attanaglia i monti, quando tutto è coperto da un manto bianco che cambia i connotati del paesaggio e rende una sfida la sopravvivenza di ogni fiammella di vita, sia essa animale o umana.
Solo uno scrittore che conosca così approfonditamente la natura, la montagna, e abbia una penna così felice nel renderla può vincere la scommessa di non annoiare mai il lettore parlando per intere pagine della stessa cosa, un uomo che fugge e vive tra i monti. Corona la vince alla grande raccontando la natura tramite immagini, similitudini, iperboli, metafore, analogie, parallelismi, perifrasi che la rendono sempre diversa, seppur così uguale. Tutto è raccontato come se Svalt-Mauro vedesse quei luoghi, in realtà battuti e strabattuti da anni di vita da cacciatore, per la prima volta e così ne trasmette la magia a chi legge. Evidentemente perché, dopo la "conversione", è davvero la prima volta che Svalt vede la natura come un mondo nel quale inserirsi, piano piano, senza far danni, senza far rumori inutili, adattandosi al suo ritmo, senza cambiarne il corso. Uccidendo solo per fame, come fanno gli animali, non per crudeltà, come fanno gli uomini. "Agire come un respiro diventò la mia regola" (p. 167). Fino al punto di non voler tagliare nemmeno un pino morto e ormai secco, ci penseranno gli anni a renderlo polvere. Il destino di tutto, persone e cose. 
Certo, a tener desta l'attenzione è anche la dannata caccia all'uomo che i gemelli Legnole, "buoni a nulla, ma capaci di tutto" (p. 78), portano avanti con assurda determinazione e il gioco di movimenti di attacco e difesa diventano il filo narrativo che sostiene la vicenda. Rafforzato da un escamotage più e più volte ripetuto, quasi fosse un racconto orale, atto a sostenere l'attenzione del narratore. Anticipando in poche parole ciò che succederà più avanti, ma senza raccontare troppo, il narratore si ferma con frasi come "ma è meglio che racconti la storia per ordine" (p. 114), "ancora non sapevo che di lì a qualche ora mi avrebbe salvato la pelle" (p. 55), "ma devo procedere in ordine o viene confusione" (p. 151). E via di questo passo facendo capire al lettore che qualcosa sta per accadere. Una tecnica anticipatoria tipica della tecnica orale dei cantastorie, antica, poco raffinata, se si vuole, ma sempre molto efficace.
Non si creda però a una fuga dalla vita, a mò di Walden Vita nel bosco di Thoreau, il motore umano, l'amore, inteso in senso molto ampio, per il cane, per l'amico, per una donna, tornerà a farsi sentire, inserendosi nell'ingranaggio del sentimento panico per la natura, spingendo Svalt a cercare un contatto umano dopo mesi nei quali l'unica umanità all'orizzonte era la stolidezza dei Legnole.
In una recente intervista Corona ha detto: "Ci ho messo trenta libri per arrivare a scrivere di cosa provo". Dovremo forse dare l'addio alle vicende, in certi casi anche un po' violente, un po' forti, di gente e montagna che tanto successo hanno avuto nei libri precedenti... quel che è certo è che questo è un romanzo vero, uno smascheramento, un mettersi a nudo. Si sente in ogni pagina la metamorfosi di sé che lo scrittore vuole raccontare. E forse troveremo un nuovo Corona, meno macho, ma più umano.

Sabrina Miglio