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L’amicizia oltre la distanza in “Vediamoci al Museo” di Anne Youngson

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Vediamoci al museo
di Anne Youngson
La nave di Teseo, marzo 2022

Traduzione di Elsa Malanga

pp. 232
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Agli inizi degli anni Sessanta, il professor P. V. Glob, archeologo danese, pubblicò un interessante saggio, Gente di palude (titolo originale The Bog People), dedicato alla scoperta del ritrovamento di un uomo prestorico perfettamente conservato, l’Uomo di Tollund. A questo saggio rispose una classe di studentesse inglesi, entusiaste della scoperta.

Sessanta anni dopo, una di quelle studentesse, Tina Hopgood, scrive nuovamente al professore. In un momento di crisi esistenziale, Tina prova a cercare alcune risposte in quell’archeologo che tanto la entusiasmò in giovane età. A rispondere alla sua lettera, però, non è il professor Glob, morto molti anni prima, bensì il curatore del museo in cui è conservato il famigerato Uomo di Tollund, Anders Larsen.

Da questo incontro, apparentemente così casuale, nascerà una profonda amicizia epistolare che li farà affezionare l’uno all’altro e li costringerà ad affrontare i nodi delle loro vite. Entrambi, infatti, stanno vivendo un momento molto difficile: Tina ha da poco perso la sua migliore amica, Bella, e, al contempo, le sembra che la sua vita di moglie, madre e lavoratrice agricola, in realtà, sia monotona e poco soddisfacente.

Anche io sento di aver sacrificato la mia vita, ma per niente. Ho sacrificato la mia persona, per prima cosa, alle convenzioni sociali dei miei genitori e del loro ambiente, che non contemplavano la possibilità di abortire o di avere un figlio e rimanere single. Poi mi sono sacrificata in nome dell’azienda. (p. 28)

Lo stesso vale per Anders, il quale ha perso in modo tragico la moglie e non riesce a riprendersi da questo dolore che gli sembra incolmabile, avendo perso con lei anche la speranza di un futuro sereno.  

I due, dunque, iniziano a scriversi sempre più assiduamente: se all’inizio, la conversazione è in toni formali e gli argomenti spaziano dall’archeologia alla storia, pian piano saranno le confidenze intime di Tina e Anders a diventare protagoniste. Le loro lettere diventano quasi un fiume in piena inarrestabile, una sorta di flusso di coscienza a doppio senso che li porta a raccontare le loro vite, i loro figli e i loro lavori fin nei minimi dettagli. Grazie alle loro missive, riescono a essere onesti con se stessi.

Da queste parole, dunque, verranno a galla le insicurezze, le fragilità, le delusioni, i rimpianti di una vita, come quelli di Tina che sente di aver mancato moltissime occasioni per compiacere gli altri oppure quelli di Anders che ha trascurato i figli per occuparsi della moglie, da sempre fragile psicologicamente. Un conforto l’uno con l’altro che li porterà a rivoluzionare e cambiare le loro esistenze, sebbene in modi e tempi diversi. Il curatore, infatti, incoraggiato dalle parole della sua amica di penna, si dedicherà totalmente ai figli, soprattutto alla figlia quando scoprirà di aspettare un bambino e apprezzerà nuovamente i piccoli, ma grandi, momenti famigliari, riuscendo anche, in qualche modo, a liberarsi dal fantasma della moglie. Tina, invece, sotto questo punto di vista, è meno incline al cambiamento. Si propone frequentemente di viaggiare e di andare a trovare Anders, ma solo la realtà dei fatti la costringerà a rivoluzionare la sua vita, quando questa non potrà essere più ignorata e, dunque, quando sarà lei stessa a trovarsi con le spalle al muro: "[…]Sono stata, credo, meno generosa di lei e più riservata di lei […]". (p. 210).

Dalle loro lettere emergono caratteri diversi ma complementari: Andres, schiacciato dal dolore della perdita della moglie, ritrova la spinta necessaria quando comprende il sostegno che Tina ha nei suoi confronti e alla fin fine non aspettava altro che la fiducia di una persona amica, anche se di penna, per ritrovare un po’ di speranza.

Cara Tina

[…] ho deciso di scriverle senza aspettare ancora, solo per dirle che mi mancano le sue parole. Lei ha reso possibile, per me, parlare di cose di cui non avevo mai parlato prima e di capire cosa c’era sotto. Sono in pace, adesso, cosa che prima non ero. Sono più felice. Volevo che lei lo sapesse. (p. 193)

La donna inglese apre il suo cuore quando, invece, capisce che Anders non la giudica, ma, anzi, la ascolta, o in questo caso la legge, poiché dalla morte dell’amica, non ha avuto nessun altro con cui parlare e confidarsi. La vera spinta per Tina, però, sarà quando capisce che per Anders, le sue parole, opinioni e consigli sono necessari perché in fondo lei non si è mai sentita necessaria per nessuno, nemmeno per il marito:

Se fosse in grado di dirmi la verità, sarebbe costretto ad ammettere che l’azienda era più importante, per lui, di me. Che mi ama perché io sono parte delle rotelle e dei pistoni che la fanno funzionare (p. 226)

Vediamoci al Museo è solo apparentemente il titolo, perché, in realtà, incarna un proposito e una promessa per Tina e una speranza per Anders che confida un giorno di incontrare la sua amica di penna. E così questa espressione, che può sembrare un normale invito, diventa un obiettivo di vita.  

A una prima lettura, questo romanzo è il racconto di due persone che casualmente diventano amici, ma, ampliando la riflessione, capiamo che Tina e Anders hanno sofferto, e soffrono fino alla loro conoscenza, di una profonda solitudine, nonostante Tina abbia un marito e una famiglia numerosa e Anders abbia ugualmente due figli. La sensazione che li unisce è il sacrificio che entrambi sentono di aver fatto in nome di qualcun altro (Tina per il marito e per l’azienda agricola, Anders per la moglie).

La loro amicizia li costringerà, però, a muoversi e a decidere quale direzione dare alle loro vite: continuare a condurre una vita monotona e poco appagante? O approfittare del loro fortunato incontro per dare uno scossone, tanto sognato ma mai realizzato, alle loro esistenze?

Con le dolci e tenere parole, Anne Youngson ci mostrerà uno spaccato della nostra società nel quale, purtroppo, sono sempre più numerose le persone che si perdono nelle loro vite solitarie, in Vediamoci al Museo, però, non c’è pietismo, bensì una spinta motivazionale che conduce Tina e Anders a trasformare questa triste sensazione in una serenità liberatoria.

Giada Marzocchi