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"Euforia". Un romanzo su Sylvia Plath e le cronache dal fondo del pozzo

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Euforia
di Elin Cullhed
Mondadori, gennaio 2022
Traduzione di Monica Corbetta


pp. 300
€ 19,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook) 

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Mi affiorò alla memoria la faccia di mia madre durante l'ultima, e unica, visita dal giorno del mio ventesimo compleanno, una pallida luna, carica di rimprovero. Sua figlia in manicomio! Io farle una cosa del genere! Ma evidentemente aveva deciso di perdonarmi.
"Ricominceremo da dove eravamo, Esther" aveva detto con il suo dolce sorriso da martire. "Faremo come se fosse stato soltanto un brutto sogno."
Un brutto sogno.
Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo.
(La campana di vetro, Sylvia Plath)

“Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo”, scriveva Natalia Ginzburg in un formidabile Discorso sulle donne apparso sulla rivista “Mercurio” nel 1948, “di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne. Le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante; ma a me non è mai successo d’incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e di pietoso che non c’è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro, qualcosa che proviene proprio dal temperamento femminile e forse da una secolare tradizione di soggezione e schiavitù e che non sarà tanto facile vincere; m’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi indiceva a commiserarle e che capivo molto bene perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai.” A prescindere da età, ceto sociale, educazione e prospettive, dunque, “due donne si capiscono molto bene quando si mettono a parlare del pozzo oscuro in cui cadono e possono scambiarsi molte impressioni sui pozzi e sull’assoluta incapacità di comunicare con gli altri e di combinare qualcosa di serio che si sente allora e sugli annaspamenti per tornare a galla.”

Forse è esattamente per questo che la storia privata, oltre che le opere, di Sylvia Plath non smetteranno mai di parlarci di quel pozzo, quell’oscurità che anche chi sarebbe pronto a giurare di non aver mai provato sa benissimo cosa sia.
L’autrice svedese Elin Cullhed fa un notevole sforzo di immedesimazione nel suo Euforia, edito Mondadori, tradotto da Monica Corbetta, vincitore del Premio August in Svezia e ora candidato al Premio Strega Europeo. Ed è molto onesta nel restituire la voce dell’ultimo anno di sofferenze sulla terra della scrittrice, morta suicida all’età di trent’anni, nel febbraio del 1963. 

Un’operazione analoga a quella di Connie Palmen in Tu l’hai detto (Iperborea, 2018, trad. Claudia Cozzi, Claudia Di Palermo) che racconta la vicenda dal punto di vista di Ted Hughes, poeta affermato, marito di Sylvia e adombrato, forse a ragione, dal sospetto di essere stato il mandante, o quantomeno il fiancheggiatore, del suicidio di sua moglie.
Cullhed si immerge completamente nella voce di Sylvia, così come ci è restituita dai Diari (in Italia pubblicati da Adelphi) che - secondo l’introduzione scritta da Hughes, che per primo decise di pubblicarli - sono "quanto di più vicino a quello che era davvero nella vita di tutti i giorni" e dunque diversi da tutti gli altri scritti perché “è nei diari che lei annota, soltanto per se stessa, la lotta quotidiana coi suoi io conflittuali. Una sorta di “autobiografia, tutt’altro che completa ma articolata e minuziosa, nella quale si è sforzata di osservarsi onestamente e ha lottato per trovare una strada facendo e disfacendo se stessa”.  

E dunque troviamo in Euforia un ritratto umano, complesso, di una donna che lotta disperatamente contro se stessa e i suoi fantasmi: una madre che ha sempre preteso troppo e un padre autoritario morto quando aveva otto anni, l’ansia e l’ossessione di dover dimostrare il suo valore, letterario e non solo, l’ammirazione e l’invidia per Ted, più libero in quanto uomo, più celebrato in quanto poeta già affermato e amato di un amore a tratti morboso e diffidente. L’uomo che l’ha resa madre due volte, di Frieda e Nicholas, che l’hanno, a loro volta, partorita come nuovo essere umano e l’hanno lasciata irrimediabilmente lacerata. Un difficile equilibrio con il proprio ideale di femminilità, con la competizione con le altre donne. E infine il tradimento, non più presunto, di Ted, e l’abbandono di quest’ultimo del tetto coniugale e della canonica che hanno ristrutturato in Devon. Una quotidianità che pesa, a lei, americana brillante già parzialmente nota come scrittrice e poetessa, in procinto di pubblicare il suo primo (e resterà l’unico) libro, fittiziamente autobiografico, La campana di vetro, e finita a vivere nell’inganno statico di un paesino di campagna inglese che aveva dapprima scambiato e cercato come esaltante quanto disperata possibilità di un nuovo inizio. Ma soprattutto quel sentirsi sempre ai margini di una vita adulta che desiderava avventurosa, piena e appagante sul piano umano e professionale e si rivela dolorosa e sempre piena di difficoltà.
Una sorta di cronaca dal pozzo in cui è finita e dal quale non riesce a uscire (ha già tentato il suicidio, è già stata in clinica, è seguita da una psichiatra e si darà la morte in un modo tanto tragico quanto agghiacciante).
Sylvia Plath - il personaggio, la scrittrice, la donna - può anche non piacerci. Possiamo trovarla nevrotica, e stucchevoli e patetiche le sue ambizioni. Possiamo non credere alla sua versione dei fatti, addirittura pensare che fosse una scrittrice a tratti mediocre, nobilitata dal destino da eroina tragica che l’ha resa tristemente celebre: il suicidio con la testa nel forno. Quel forno simbolo della casa, del pane, delle faccende della brava casalinga che disperatamente cercava di essere, quando non ne aveva la vocazione né l’intenzione.
Ma siamo costretti a interrogarci in ogni caso sulle motivazioni di una vita e su quelle della sua fine. Ed è qui che risiede la particolarità del romanzo: Cullhed sembra scartare queste motivazioni, sul filo di un’euforia che è allegria di naufragi, e ci porta a pensare, per un attimo, in disaccordo con la realtà dei fatti, che Sylvia non lo farà.
Come se per ogni storia triste fosse possibile riavvolgere il finale fino all’attimo prima della catastrofe. Fino al momento in cui è stata scattata la foto e prima di accorgerci che siamo venuti tutti con gli occhi chiusi.
Questa lettura ci porta dunque a scendere a patti con quel qualcosa che, in quanto esseri umani e ancora di più in quanto donne, non necessariamente abbiamo mai provato ma, come diceva Natalia Ginzburg, sappiamo benissimo cosa sia.
Alba de Cespedes, direttrice della rivista su cui era apparso il Discorso alle donne, rispose alla Ginzburg sulla faccenda dei pozzi. E le disse che al contrario, lei credeva che questi pozzi siano la nostra forza. "Poiché ogni volta che cadiamo nel pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel riaffiorare portiamo in noi esperienze tali che ci permettono di comprendere tutto quello che gli uomini non comprenderanno mai."
Quello che de Cespedes non contemplava, nella sua ricognizione, è la voce di chi dal pozzo non è più riemerso. Che può servire per ricordarci che il problema talvolta - come recitava la frase di un film cult degli anni Novanta, che con Euforia condivide un icastico sostantivo per titolo, L'odio - non è la caduta, ma l’atterraggio. 

Giulia Marziali