Qui non possiamo più restare
di Giuliano Gallini
Ronzani editore, marzo 2022
pp. 140
€ 12,00 (cartaceo)
Avevo quasi cinquant'anni quando convinsi la direzione di rete della televisione per la quale lavoravo come giornalista free lance di affidarmi un programma di inchieste. Chiamai il mio progetto Il mercato dei miserabili, citando l'immortale romanzo di Victor Hugo. Mi sembrava che i ceti diseredati del nuovo millennio non fossero molto diversi dai poveri della Parigi di inizio ottocento, e che lo sfruttamento del lavoro avesse ripreso, dopo una fase di contenimento, con una intensità senza paragoni nella storia. (p. 28)
Marcenda e il suo piccolo gruppo hanno creato qualcosa di straordinario: un centro di accoglienza in una ex area conventuale in cui migranti e indigenti possono rifugiarsi e recuperare. Recuperare forze, fiducia, imparare un lavoro prima di essere di nuovo inseriti nel mondo. Il Monte – così si chiama la piccola isola assistenziale – sorge nei pressi del paese di Murata. Sono ormai cinque anni che la struttura funziona, ma ci sono sempre screzi, problemi ad accettare il diverso e il più sfortunato; se fino ad allora i problemi si erano limitati a mugugni, nel giro di pochi giorni si susseguono eventi di gravità crescente. Minacce, aggressioni, omicidi mostrano che nemmeno le mura di un convento e tutte le buone intenzioni del mondo possono impedire all'essere umano di scagliarsi sempre contro i membri più deboli della società.
Parte con avvenimenti che sembrano portare in una direzione molto specifica il romanzo breve di Giuliano Gallini Qui non possiamo più restare. L'aggressione fisica ad Adele, giovane ghanese bianca arrivata a Murata per raggiungere il Monte e picchiata non appena scesa dalla corriera, e l'inseguimento intimidatorio della giornalista che si presta come parziale voce narrante degli eventi sembrerebbero indicare una matrice razzista e misogina nei tentativi di distruggere la comunità creata da Marcenda. Una comunità che nasce all'insegna della più normale trafila burocratica: il bando emesso dalla Regione per il recupero di un'area conventuale ormai dismessa e vinto da questa piccola cooperativa che ha il desiderio di fare qualcosa di concreto per gli ultimi della società. Sembrerebbe così ovvio e quasi scontato immaginare che l'attacco sia rivolto al diverso e al debole, ma il vero animo sovversivo di questa comunità non sta tanto nel chi accoglie, ma nel come sceglie di formare i residenti. Per capire la rivoluzione che il Monte propone è necessario fare un passo indietro e cercare di capire in che mondo questa utopia di inserisce.
Al Monte viene per diventare assistente sanitaria, una professione ancora ricercata, non ci sono previsioni di sostituzioni robotiche per le operaie dell'ospedale. (p. 15)
Anche chi aveva alzato un po' la testa grazie a un lavoro precario veniva, durante queste agonie sociali, ributtato nella miseria; e chi dalla miseria non era mai uscito diventava vittima della fame e della malattia. (p. 28)
Garantiscono loro cibo, sigarette e droghe e verificano il possesso di un device; chi non ha un terminale evoluto è visto con sospetto perché poco controllabile. (p. 33)
Non sono molti i dettagli, ma quello che emerge è un'Italia di un futuro a un passo dalla situazione attuale e di cui vediamo già i germogli adesso. L'attività di Marcenda e del suo gruppo, nel quale spicca la concreta Livia con il suo piglio da madre superiora, non è mal vista per l'accoglienza che offre, ma per come queste persone vengono poi formate: ovvero a fare meno dei device – che possiamo immaginare anche come semplici smartphone e non come qualcosa di avveniristico – e della continua esposizione a immagini, informazioni web e alla corsa sfrenata per lo sviluppo tecnologico. Il Monte è Utopia per questo motivo.
«La tecnologia deve continuare a svilupparsi e bisogna che sia insegnata nelle scuole come priorità assoluta» ribadisce il sindaco di Murata a Marcenda nel tentativo di convincerla a cambiare rotta al suo progetto. In verità, molto poco sappiamo di come la formazione si svolga al Monte e quali siano le regole e la giornata tipo della comunità. Il romanzo copre un breve arco temporale, una settimana all'incirca, e sembra quasi di leggere un'Iliade: una breve porzione di fatti che si sono sviluppati per molto più tempo e che qui arrivano al punto di rottura. Il richiamo al mondo epico è anche suggerito da alcuni preziosismi letterari come "l'aurora dalle lunghe dita rosate" che si alza su una giornata di tragedia.
Riempiamo i vuoti della storia grazie all'intervento della giornalista che è la narratrice dei fatti. Il suo stile a reportage – in cui si ricostruisce il passato di Marcenda e degli altri membri della cooperativa e di come siano arrivati a costruire insieme il progetto – viene intervallato spesso dalla visione soggettiva di Marcenda. Quello che non viene detto lo possiamo facilmente immaginare visto che il mondo descritto non è poi tanto diverso dal nostro presente. Un po' accessorio forse l'intreccio di relazioni sentimentali che, per la breve durata del romanzo, sono molte e restano soffocate dagli eventi circostanti e dal collasso della situazione.
Qui non possiamo più restare sposta il bersaglio dai più "normali" motivi di discriminazione – per genere ed etnia – verso un'insofferenza per chi vorrebbe operare fuori dall'ordine costituito, limitando l'uso della tecnologia e indirizzando gli esseri umani verso qualcosa di diverso. Non per forza sovversivo, ma di certo più immaginifico.
L'attacco era alla capacità di vedere una realtà oltre la realtà convenzionale che ci è davanti agli occhi ogni giorno. La minaccia dell'utopia è più temibile per la nostra identità della minaccia dello straniero. (p. 108)
Così ragiona Marcenda. Ma qualunque sia il motivo, l'uomo non può comunque smettere di cercare un motivo di lotta verso chi è altro da sé e altro dall'identità sociale in cui la maggioranza si riconosce.
Giulia Pretta
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