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«Si deve dire tutto nella stanza delle parole»: una narrazione disgregata per una vita altrettanto scomposta ne "Il figlio delle sorelle" di Leonardo G. Luccone

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Il figlio delle sorelle
di Leonardo G. Luccone
Ponte alle grazie, 2022

pp. 208
€ 16 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Per prendersi cura di qualcuno bisogna raccontare la sua storia, anche solo un pezzettino. Molti credono che le storie debbano essere dette dall'inizio alla fine, in bella copia, nel modo più preciso possibile. Sarà che sono negato [...], perché mi perdo sempre qualcosa, soprattutto perché non riesco a rinunciare a niente: penso che il tempo vada sparpagliato su un lenzuolo lunghissimo [...] e che ci possano essere centinaia di divagazioni. (p. 61)

La chiave di lettura di Il figlio delle sorelle, il nuovo romanzo di Leonardo G. Luccone, sta tutto in queste poche righe che il narratore scrive nella prima parte del libro. Non ci si deve aspettare, infatti, un romanzo tradizionale, con una sinossi rassicurante, che ospiti tutt'al più qualche analessi o prolessi: Il figlio delle sorelle fa sua l'inquietudine e la visionarietà del protagonista, nonché la sua incostanza e il suo procedere a sprazzi, in una vita colma di discontinuità. Sono perlopiù i dialoghi ad avere la meglio, ma si tratta di discorsi diretti liberi, privi quindi di passaggi introduttivi che ci possano illuminare su chi sta parlando; per capirlo, bisognerà proseguire, riconoscendo dai contenuti chi può averli appena pronunciati. Disorientante? Certo, e qualche volta al limite della surrealtà, ma questo non sembra preoccupare l'io narrante, che d'altra parte percorre il suo viaggio attraverso gli anni con un certo compiacimento autoreferenziale, come se stesse scrivendo per sé, per fare ordine in una vita effettivamente difficile da ricomporre.

È percorrendo le pagine e sforzandosi di inserirle in un quadro unitario che compaiono dettagli degli affetti, del passato, del suo presente, che non è altro che un «passato in prima approssimazione» (p.183). Appare così la figura di Rachele, la prima moglie: dall'affacciarsi del desiderio di avere un bambino ai tentativi disperati di diventare genitori, a qualsiasi costo. Compare poi, all'improvviso, la figura della figlia Sabrina: come è arrivata nelle loro vite? Accanto alla ricostruzione slabbrata del cammino doloroso e accidentato che ha portato il protagonista a diventare padre, quasi suo malgrado, troviamo Gilda, la nuova compagna, con sua figlia Carlotta, più o meno coetanea di Sabrina. Con loro il protagonista ha trovato un nuovo equilibrio mentale e ha ormai imparato a convivere con le Voci che sente, che di notte specialmente prendono il sopravvento. Ma cosa accade quando, quindici anni dopo, Sabrina piomba nella sua vita in modo rocambolesco? È normale questa "fame" di recuperare il tempo perduto? 

Tra ossessioni al limite del patologico, ricordi guardati con una certa nostalgia, lunghi dialoghi sorseggiati con un Moscow Mule improvvisato, il protagonista incontra sé stesso in sua figlia Sabrina. I due coltivano uno spazio solo loro, la "stanza delle parole", dove possono dirsi tutto, girando attorno alla domanda centrale: perché non si sono visti per quindici anni? Perché Sabrina è stata cresciuta solo da Rachele? 

Tanto Sabrina quanto Carlotta desiderano compiacere quel padre che, in modo diverso, sentono che non appartiene né all'una né all'altra e che, nonostante tutto, le ammalia. Un'idea stravagante si affaccia alle loro giovani menti, ma c'è tanto ancora che potrebbe spiegare la psicoanalisi, in questo libro che si offre a molteplici letture. Il rischio di questo esperimento narrativo e stilistico, semmai, è quello di richiedere un approccio eccessivamente ragionativo: non che io cerchi l'immedesimazione (assolutamente sopravvalutata, a mio parere), ma avrei gradito un po' di coinvolgimento. Non è accaduto, e anzi certi passaggi mi sono risultati piuttosto capricciosi; pazienza! Questo, d'altra parte, è soggettivo; di oggettivo c'è invece uno stile interessante, da guardare con grande curiosità. 

GMGhioni