Tornare al passato, raccontarlo da vicino, attraverso il dialetto, i dettagli di professioni che non esistono più, pensieri di uomini semplici che hanno capito quanto le parole possono essere superflue: come mi aveva stregato Se l'acqua ride, anche Il Moro della cima è un romanzo straordinario.
Lo è per varie ragioni. Innanzitutto per chi ama la montagna, perché il protagonista, chiamato da tutti "il Moro", è innamorato della Grapa e non vede l'ora di salire in montagna. Da ragazzo, lo fa con la scusa di andare a badare alle bestie alla malga, dando una mano al pastore Menico, ma ci vuole poco perché avverta un richiamo fortissimo e decida di lasciare tutto per salire, anche un po' sconsideratamente, ad alta quota. Lassù bisogna imparare a respirare, trovare il proprio passo, senza mai perdere di rispetto la montagna, che nel corso di tutto il romanzo è personificata e adorata come una divinità ancestrale. La Grapa è nei suoi pensieri anche quando va a soldato; infatti, quando torna, il Moro ha la gioia di rivedere la sua morosa, sì, ma anche la sua cima. A poco servono i tentativi di diventare stanziale, un contadino come i suoi parenti: il richiamo della vetta si fa sentire, è un tormento per chi si trova nella pianura ripetitiva e senza grandi stimoli.
La sorte ha in mente ben altro per il Moro: nel corso della sua vita, risalirà la montagna come guida turistica improvvisata, bravissima nel raccontare, ma anche come oste di un rifugio. E sarà proprio da là che osserverà imperversare la Prima guerra mondiale, assistendo a un conflitto ben diverso da quello che è registrato sui giornali, con conseguenze devastanti e ben difficili da sopportare.
A seguire il Moro nelle sue avventure, a lungo troviamo il cane Toh, compagno inseparabile tanto quanto un fratello. Sono questa devozione alla natura e l'accettazione delle sue regole - anche delle più difficili - che rendono il Moro recalcitrante davanti ai segni del progresso. Questo, tuttavia, procede inesorabilmente e va a cambiare la montagna, che smette di essere "la Grapa" e per tutti diventa "il Grappa" con la Prima guerra mondiale. Su quelle pendici e in cima arrivano i segni dell'uomo, che, insensibile, non si fa grandi problemi a scavare fondamenta per un rifugio, a portarvi una statua della Madonna, a costruire una strada bianca e ripida o a scavare una galleria lunga chilometri. Dopo i turisti che scalano un po' a caso la montagna, arrivano gli sciatori, e il Moro trova assurdo disturbare la montagna in pieno inverno, dopo che la neve ha imbiancato tutto. Agli occhi del Moro queste sono profanazioni, ma poi non gli resta che adattarsi, ritagliandosi un proprio posto speciale (sempre rispettoso e omaggiante) sulla cima di quella montagna che lo ha aiutato per anni a sentirsi maggiormente vivo.
È vero che nelle primissime pagine troviamo il Moro alla fine della sua vita, ma nel corso di tutto il romanzo abbiamo l'occasione per ripercorrere minutamente i momenti salienti di quell'esistenza straordinaria, pur nella sua ordinarietà. Ci si mette poi la narrazione di Paolo Malaguti a fare il resto: dettagli minuti, tessere di dialetto, pensieri di altri tempi prendono il giusto spazio, ammantando la storia di un tempo che non c'è più, apparentemente più semplice, o forse semplicemente più autentico.