La vita è come un bambino, o una giovane sposa: l’inno all’esistenza di Selma Lagerlöf in “Bandito”


 

Bandito
di Selma Lagerlöf
Iperborea, 2022

pp. 318 
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
 
Traduzione di Luca Tapparo
Postfazione di Chiara Valerio


È da diciassette anni che Thala e Joel non hanno notizie del loro figlio Sven, affidato bambino a una coppia di inglesi benestanti perché lo educassero e ne facessero il loro erede. Adesso, quello che scoprono, proprio nel momento che precede il suo ritorno, è sconvolgente, e solo la generosità e il sangue condiviso permettono loro di accettare, non senza fatica: il ragazzo è stato infatti coinvolto in un incidente durante una spedizione al Polo Nord e, insieme ai compagni, per sopravvivere, si è nutrito di carne umana. Per la piccola comunità in cui la famiglia è inserita, questo è un peccato imperdonabile perché infrange un tabù atavico e inestirpabile, e rimette in discussione non solo l’appartenenza sociale, ma anche la natura umana del colpevole:
C’è una cosa, […] e non so se non sia addirittura l’unica, che le persone civilizzate non possono fare. Uccidono, commettono adulterio, rubano, compiono atrocità, non si trattengono dall’ubriachezza, dallo stupro, dal tradimento, dalla delazione. […] Uno dei peccati più antichi dell’umanità non viene più commesso nei paesi civilizzati. […] Ma io quel peccato l’ho commesso. E sono più aborrito del diavolo. (p. 24)
Nessuno può più stare accanto a Sven Elversson senza provare una sensazione di nausea, senza sentire sulla lingua il sapore della carne. Persino il pastore non riesce a trattenersi e denuncia il crimine durante il sermone domenicale, portando di fatto Sven a essere bandito e isolato dai concittadini, che rifiutano di condividere lo spazio, quasi di respirare la stessa aria, con un individuo considerato ripugnante. Il disgusto, commenta Lagerlöf, è come un gatto che si muove sinuosamente, e dilaga tanto più quanto più è angusto il perimetro sociale.
Al di là di ogni attesa, nonostante la vita comoda condotta per buona parte dell’infanzia, Sven non è arrogante o distaccato. È anzi umile e gentile, grande lavoratore e anima sensibile. La mitezza con cui accoglie gli insulti e l’isolamento, il sorriso educato e lo sguardo sempre più vacuo con cui risponde a ogni provocazione spezzano il cuore al lettore, che ne percepisce l’ingiustizia. A nulla valgono i tentativi dei genitori di farlo integrare: gli uomini lo respingono, i bambini lo temono o lo irridono, le pie donne del paese “hanno il cuore così pieno di fede e di rettitudine, che non c’è più posto per la pietà” (p. 35). Una sola si dimostra diversa dagli altri: è una giovane dalla straordinaria bellezza, moglie di quel pastore che ha allontanato Sven dalla sua chiesa. Lei non ha pregiudizi, e vede in lui l’uomo buono che è. Basta uno sguardo di accettazione, un bacio su una fronte, a cambiare le sorti di un uomo.
Uno degli elementi che colpiscono di più, in questo romanzo pubblicato nel 1918, e in generale nella narrativa di Selma Lagerlöf, è la modernità con cui vengono affrontati alcuni temi. Non solo l’effetto dell’emarginazione e del disprezzo sociale sulla vita del singolo, ma anche la condizione della donna, nel momento in cui prova a emanciparsi da una vita che le va stretta. Sigrun appare infatti prigioniera di un rapporto disfunzionale: il pastore è ossessivamente geloso, manipolatore affettivo che prima la sminuisce, la rende insicura, poi la isola dalla società per poterla meglio controllare. Non conta che lui stesso sia un personaggio tormentato, afflitto da una maledizione che grava sulla sua famiglia. Lagerlöf appare ben consapevole dello squilibrio relazionale nel momento in cui fa esprimere alla sua protagonista il suo bisogno di libertà, di realizzazione individuale: “Non potrei liberarmi solo per un po’? Sono pur sempre un essere umano. Avrò il diritto di scegliere per me stessa, almeno una volta” (p. 166).
Al contempo, non c’è alcuno dei personaggi a cui la scrittrice guardi superficialmente, o in un’ottica di condanna definitiva: tutte le storie vengono problematizzate, complicate, ripercorse nei loro sviluppi presenti e passati, e spesso i punti di vista si moltiplicano per offrire un accesso plurimo al reale. Anche al pastore è quindi concessa la sua occasione di redenzione, forse non tardiva, in un’analisi di coscienza che prende atto del male fatto, e dei pericoli di un amore “oltre ogni limite e misura” (p. 229). La liberazione può avvenire soltanto di fronte alla verità, allo sguardo nitido rivolto verso se stesso e verso l’altro, nella considerazione che esiste una gerarchia valoriale tra le cose del mondo: La vita non era forse mille volte più inviolabile della morte? (p. 263). Si riscattano così, a un tempo, il pastore e il peccatore.
Nel momento in cui la guerra fuori imperversa, col suo carico di barbarie, si valorizza quanto sopravvive di buono, puro e incontaminato nell’essere umano. Le ultime trenta pagine potrebbero anche sembrare di troppo, nel momento in cui il filone principale della trama si realizza, e nel modo auspicato dal lettore. Eppure in quelle ultime pagine Selma Lagerlöf leva la sua protesta contro il conflitto mondiale che si è appena concluso, smascherando l’ipocrisia di chi giudica male un brav’uomo che ha offeso un cadavere, e poi si macchia le mani del sangue dei vivi. Questa consapevolezza apre gli occhi all’intera comunità, che da chiusa si apre verso Sven Elversson, dopo averlo a lungo rifiutato e guardato con disgusto.
Ciò che non può che colpire nella prosa di Lagerlöf, non a caso vincitrice del Nobel per la letteratura, è la grandissima duttilità del suo materiale narrativo, il modo in cui riesce a plasmarlo senza renderlo docile, dando vita ai personaggi, anche a quelli di minor rilievo all’interno della vicenda. La trama si sviluppa attraverso una serie di ellissi temporali e di salti spaziali, a configurare una storia complessa quanto il reale. E se la conclusione non è forse quella che ci si aspetterebbe (del resto la vita stessa, celebrata nel romanzo, non è quasi mai prevedibile o lineare, come ci insegna anche L’imperatore di Portugallia, di cui si è parlato qui), l’intensità con cui l’autrice affronta i temi fondamentali della vita e della morte, della solitudine e delle scelte, contribuisce a dare all’opera una valenza universale.
 
 
Carolina Pernigo