Se non fosse stato per Nancy e Charley Ellis mi sarei preso una sbronza di dieci giorni. Ma durante quei dieci giorni conobbi una bella ragazza, e nel dicembre di quell’anno ci sposammo e restammo sposati per sedici anni, finché morì. Come direbbero gli irlandesi, «morì su di me» e fu l’unica scortesia che abbia mai fatto a qualcuno.
La collana Scarafaggi della casa editrice romana Racconti ha una peculiarità: anziché essere raccolte di racconti classiche, i suoi volumi sono composti da singoli racconti lunghi, come fossero monografie dedicate a un unico autore.
Accade però che anche qui vi sia un’eccezione.
Di John O’Hara Racconti ha infatti pubblicato già due volumetti di Prediche
e acqua minerale, una miniserie di storie dedicate agli Stati Uniti del primo
Novecento, un luogo fatto di chiaroscuri, nel quale il sogno americano si
mescola con la severità del proibizionismo, e nel quale il cinema di Hollywood
funge da enorme faro notturno in grado di attirare masse di ragazzi dai più
disparati luoghi degli States. Ci sono poi la seconda guerra mondiale e le
scalate sociali, i matrimoni di convenienza e le lunghe storie d’amore
clandestine. Insomma, in questi libriccini troviamo quel mondo perduto che ha
contribuito a creare il mito di ciò che sta al di là dell’oceano, una sorta di
Eden verso il quale anche gli europei sono stati attratti.
Dopo La
ragazza nel portabagagli (2019) e Immagina
di baciare Pete (2020), dunque, Racconti porta alle stampe l’ultimo
pezzo del trittico di O’Hara, questo Siamo di nuovo amici che ha molto
il sapore dell’addio. Se nel primo libretto troviamo un giovanissimo Jim
Malloy, alter ego dell’autore, alle prese con il mondo del cinema e gli anni
del proibizionismo, e il cuore del secondo sono le relazioni amorose
turbolente, in questo terzo atto a farla da padrone sono i ricordi. O’Hara
ripercorre trent’anni di storia americana, dai giorni immediatamente precedenti
lo scoppio della seconda guerra mondiale dominati dal New Deal di Roosevelt fino a quei Sessanta che hanno visto
il boom economico di mezzo mondo. La prospettiva è tuttavia quella del presente
in cui il volumetto è stato scritto, il 1961, e quindi l’operazione dello
scrittore sessantenne non può che essere quella di voltarsi indietro e guardare
a una vita vissuta. Il sentimento prevalente è la nostalgia, quel bacino
di acqua calda e profumata in cui è bello immergersi e crogiolarsi come fosse
un grembo materno ma che – lo sappiamo tutti – rischia di essere fatale se si
resta ammollo troppo a lungo. Quando hai vissuto i ruggenti anni Venti, sembra
dirci O’Hara, quando sei rimasto folgorato dallo shock della Grande depressione
e della guerra per poi tornare con in piedi a terra al contatto con una nuova
realtà, forse senti di aver vissuto una vita che nessuna novità può rendere più
piena.
Anche qui, come nei volumi precedenti, è l’arte
del dialogo a imporsi. Intere pagine sono dedicate a degli scambi a due o a tre
nei quali sono quasi assenti elementi extra dialogici e deittici. Il
livello letterario rimane sempre altissimo e quasi mai capita al lettore di
doversi domandare chi stia parlando. Rispetto agli altri due si percepisce come
gli accadimenti, gli eventi, siano meno rilevanti: la storia stessa è meno
interessante – La ragazza nel portabagagli resta il racconto più riuscito
in termini di trama – ma non è importante perché ciò che conta è percepire
quella sensazione di amarezza che attraversa tutta la
narrazione. È la maturità di una vita che fa i conti con tutto ciò che c’è
stato prima: il bello e il brutto, il bene e il male vengono esperiti in
retrospettiva e forniscono un nuovo livello di significato a tutto quanto è
accaduto. La vita, appunto, è stata vissuta. È alle spalle. Tutto ciò che
doveva essere fatto è stato fatto.
Tutto ciò viene riassunto alla perfezione dai versi del Don Juan di Byron, che finalmente, dopo tre libri, danno il titolo della serie di racconti: «Si abbiano vino e donne, riso e giubilo / Prediche e acqua minerale l’indomani». E così sia.
David Valentini