"Una fame oscura, piena di timore e di speranza". Ossessione e guarigione in "Fame blu" di Viola Di Grado

 



Fame blu
di Viola Di Grado
La nave di Teseo, 2022

pp. 188
€ 18,00 (cartaceo) 
€ 9,99 (ebook)

 
Quello con Xu è un amore che corrode, consuma, divora. Un amore nato per caso, da un vuoto e uno sradicamento. La narratrice si è trasferita a Shangai inseguendo un sogno non suo, il fantasma del suo gemello morto, che si è lasciato dietro un deserto di apatia, di vuoto esistenziale. La Cina porta con sé l’illusione di un’evasione, di consolazioni facili, attraverso lo splendore patinato e ininterrotto delle sue strade, lo slancio verticale al di sopra di una miseria rinnegata:
Avevo letto tutto, della Cina. Per essere all’altezza di quel sogno non mio, interpretarlo in modo credibile, come un’attrice con un testo ostico in un’altra lingua. Avevo studiato tutto. (p. 29)
Eppure l’eccesso di bellezza e un’impressione di artificialità che non si riesce a superare portano alla protagonista un senso di angoscia sottile, di claustrofobia. In cerca di un posto da chiamare casa, nella consapevolezza che “casa era dove c’era Ruben e Ruben non era più da nessuna parte” (p. 27), la ragazza cerca stordimento e consolazione in un rapporto totalizzante, distruttivo. Non ha più tempo, più voglia, più bisogno di ciò che è mite, rassicurante. Tutto va bene, purché abbassi la soglia dell’autocontrollo, come le pillole gialle che compra con l’amica-amante dietro da stazione Hongqiao:
[Xu] è quella che mi mette in pericolo e mi fa dimenticare il sogno banale che accomuna gli umani: stare in pace, in sicurezza, stare in pace e in sicurezza. (p. 17)
I titoli di tutti i capitoli del romanzo rimandano al corpo. E col corpo la narratrice ha un rapporto conflittuale, di rifiuto. Se prima della morte di Ruben lo curava in modo asettico, “neutrale” (p. 38), dopo la sua malattia inizia a guardarlo con odio, a disprezzarlo.
Dal corpo tuttavia viene il dolore, che è una prova del proprio essere vivi. Per questo lei lo ricerca in ogni modo, calando in una spirale sempre più palesemente autolesionista.
Il corpo è un’eccezione. La materia si aggrega più facilmente in contorsioni vegetali. Il 99% della materia terrestre è costituito da piante. Materia muta. Solo un intoppo ci rende carne e voce: una contraddizione scomoda in un pianeta di vita immobile. Un’organicità che grida, gioisce, desidera, ha paura di morire. (p. 80)
Quello intrapreso dalla narratrice, di cui non conosciamo il nome perché lei stessa lo sostituisce sistematicamente con altri (nomi cinesi che rimandano al suo desiderio di un nuovo inizio, o addirittura quello del fratello), è uno sprofondare infero. È al Poxx, locale per occidentali, luccicante come tutte le cose ingannevoli e pericolose, che incontra Xu, travestita per Halloween come la Volpe che, nel folklore cinese, incarna l’intreccio tra seduzione e malvagità:
Le ricordavo bene. […] Storie su donne sottili e remissive che fingevano di volere l’amore ma volevano qualcosa di più buio. Le loro unghie erano appuntite e i loro occhi tremavano a lume di candela. C’era sempre un momento di rivelazione. Un momento in cui le due immagini – la volpe cattiva e la donna affettuosa – non coincidevano più, i loro margini si separavano come un mazzo di carte gettato a terra. E allora accadeva qualcosa di irreparabile. (p. 42)
C’è, nella ragazza, qualcosa di ambiguo e inafferrabile. Le storie che racconta, le parole che riversa fuori di sé compulsivamente, “fino a esaurire qualcosa, non so cosa” (p. 59), lasciano sempre intuire sotto la superficie un magma oscuro e ribollente: “avevo la sensazione che usasse le parole come carta da pacchi: per imballare altre parole più dolorose” (p. 58). Anche nel suo passato si annidano dei grumi di malessere che hanno ripercussioni nel presente, ma lei reagisce con il controllo assoluto, su sé e sugli altri, respinta ogni forma di fragilità o contatto emotivo sincero. Xu parla, e parla ancora, per saturare un vuoto che non vuole riconoscere.
È questa la prima fame che si incontra nel romanzo: una fame espressiva, veicolata da una sorta di bulimia linguistica, che incontra quella complementare della narratrice, a sua volta avidamente bisognosa di attenzioni (“il mio bisogno d’amore mi martellava nel petto come un brutto cane che bussa a una porta che non viene mai aperta”, p. 60).
Eppure la lingua, e così il cibo, possono diventare strumenti di dominazione, elementi di un gioco perverso in cui l’obiettivo è sottomettere l’altro. A tenere le redini è proprio Xu: è lei che decide e detta le regole. Sono di Xu i morsi, che gratificano la narratrice per l’amalgama di dolore e ottundimento che riescono a generare.
Nella stanza della ragazza, satura dell’odore dolciastro e nauseabondo di alimenti marcescenti e sparsi ovunque, la narratrice per la prima volta equipara il proprio corpo a un frutto troppo maturo, brama di essere divorata. Pesano in ugual misura, in questo desiderio, una volontà di appartenenza totale e una di sparizione, di dissolvimento del sé.
Totalmente appiattita sulla risolutezza dell’amante, la protagonista accetta tutto, attende, obbedisce. Recide radici dolorose, a casa non ci pensa più, anche se tiene accanto al letto la foto del fratello, unico aggancio con ciò che era. Lampeggiano in lei alcuni sprazzi di consapevolezza, per esempio che “l’amore non dovrebbe procurare cicatrici insensibili, […] al massimo ferite blande, veloci a ripararsi” (p. 138), o che forse il suo male non è una cosa recente, ma una più antica e radicata, “un’abitudine a sentirmi a uso e consumo degli altri” (p. 132). Nessuna di queste intuizioni produce però il benché minimo impulso al cambiamento, né tentativo di liberazione. Anzi, la psiche già fragile della protagonista si fa sempre più vacillante, la sua adesione al reale sempre più instabile. Dorme poco, non riesce a concentrarsi, visioni inquietanti infiltrano il suo quotidiano. I ricordi intrusivi di Ruben non confortano, ma aumentano il carico di sofferenza nel suggerimento di una resa inevitabile. La storia si trascina logorante, in balia dei dettami di Xu, sullo sfondo una Shangai straniante, fatta di fabbriche abbandonate, macelli dalle forme futuristiche e quartieri tirati a lucido per dare un’impressione di finta perfezione.
L’ansia soffocante che la narratrice avverte contagia progressivamente anche il lettore. Si capisce bene che, per uno scioglimento, se mai fosse possibile (ma per tanta parte del romanzo pare improbabile), il corpo disgregato, frammentato, deve ritrovare un’unità. Non può farlo, però, finché non si fanno i conti con il proprio dolore, non ci si dice la verità sul proprio sentire. Non è un caso allora che sia proprio un mattatoio, luogo di morte, di sacrificio innocente, l’ambientazione in cui questo avviene.
Fame blu è la storia, difficile, e a tratti sgradevole, di una dipendenza. Ma è anche la storia di un lutto, profondo e lacerante, e del rischio che la protagonista corre di restarne schiacciata, annientata. Viola Di Grado volutamente mette a disagio il lettore, gli toglie ogni aggancio rassicurante, nella rappresentazione nettissima di un’ossessione, dietro la quale si nasconde molto altro. Il volume va letto quindi con l’accortezza di non cercare, o aspettarsi, soluzioni accomodanti, o accessibili. Il percorso è infatti tortuoso, come le vie della città-labirinto in cui le protagoniste si dibattono, inseguendo un lontano barlume di salvezza.
 
Carolina Pernigo