La donna di Willesden
di Zadie Smith
Mondadori, marzo 2022
Traduzione di Dario Diofebi
pp. 120
€ 17, 50 (cartaceo)
€ 9, 99 (ebook)
Tremate, tremate, Zadie Smith è tornata. Pochi autori riescono come lei a reinventarsi a ogni nuova storia, pur mantenendo saldo il controllo su tematiche e spunti particolarmente cari, ma riuscendo ogni volta a esplorare nuovi confini testuali e, soprattutto, fare di ogni cosa su cui si posi il suo sguardo oggetto letterario. Zadie Smith è brillante, la sua vivacità intellettuale e la capacità di osservazione della società contemporanea è ciò che la distingue fin dagli esordi, uno sguardo e una lingua sempre più raffinati in anni di scrittura e formazione. Era il 2003 quando Granta la inserì, all’indomani della pubblicazione del suo Denti bianchi (qui la recensione di Debora e qui quella di Claudia), fra i venti romanzieri più interessanti della sua generazione e oggi, a distanza di un ventennio possiamo dire senza dubbio che sia stata una promessa mantenuta, per come continui a dimostrarsi fra le voci più interessanti, vivaci e attente del panorama contemporaneo. Smith si muove tra la fiction e la saggistica, modulando di volta in volta registri e forme letterarie per adattarle alla materia trattata, l’occhio sempre puntato sul presente e le sue complessità.
Lo fa anche quando per raccontare il desiderio di libertà e autodeterminazione di una donna di oggi sceglie di affondare le mani in un testo di seicento anni fa, patrimonio culturale britannico come il Racconto della donna di Bath, il sesto dei racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer. Nell’originale chauceriano, Alyson è una delle due sole voci femminili protagoniste dei ventiquattro racconti, ma la potenza della sua storia è tale da renderla ancora oggi la più celebre, studiata – seppur nella sua versione edulcorata – e letta; di fronte agli altri pellegrini della Tabern Inn, Alyson racconta senza filtri la sua storia di libertà, di desiderio, di indipendenza, scandalizzando gli avventori della locanda e il pubblico dell’epoca. Sposata cinque volte e altrettante volte vedova, è una donna che rifiuta convenzioni e ruoli imposti, sorprendentemente libera e spregiudicata. La materia originale, quindi, era già particolarmente esplosiva e moderna, nota al pubblico e, ancora oggi, motivo di polemica.
Ma perché Zadie Smith si è confrontata con il racconto di Chaucer e che cosa è diventato nella sua rivisitazione?
[…] quando una donna parlò così quattrocento anni fa fu già sconvolgente. È sempre uno scandalo quando le donne dicono le cose che son di solito dette dagli uomini… (“Il lock-in generale”, p. 31)
Alle origini della riscrittura c’è l’inaspettata vittoria di Brent (quartiere nella zona Nord Ovest di Londra in cui Smith ambienta la maggior parte delle sue opere, letterarie e non) quale municipio della cultura per il 2020 e la richiesta di scrivere qualcosa che potesse quindi celebrarlo. È un intreccio di caso, intuizione, scadenze, che portano Zadie Smith a considerare la possibilità di rivisitare il racconto di Chaucer ambientandolo a Willesden, il sobborgo multietnico del quartiere, calando il personaggio di Alyson – divenuto poi Alvita – nel mondo contemporaneo.
Guidata dalla scrittura, ne è nata la prima prova drammaturgica di Smith e la messa in scena al Kiln Theatre – in ritardo sul previsto a causa della pandemia – della pièce teatrale La donna di Willesden.
Alyson, quindi, diventa Alvita, una cinquantenne dalla fisicità prorompente, sposata cinque volte e che, di fronte agli avventori del pub Sir Colin Campbell, rivendica il diritto alla propria libertà e autodeterminazione. E quale materia ancora oggi più problematica e fonte di pregiudizio del corpo e del desiderio femminile?
Quindi, mariti: io ero e sono qui per voi. Oggi e domani. Ma voi prima dovete fare qualcosa per me. Voglio il piacere. Questo è il vostro debito. Niente pressioni, è un fatto di consenso. Voi acconsentite a dovermi sia amore che buon sesso, e poi quando ci sposiamo, sarete miei anima e corpo, fintanto che stiamo insieme. (“Il prologo della donna di Willesden”, p. 45)
Narrato in versi e trasposto quindi dall’inglese di Chaucer alla lingua contemporanea del Nord Ovest di Londra, La donna di Willesden è, quindi, un testo breve ma assai stratificato e interessante, dal punto di vista testuale e tematico, reso abilmente dalla traduzione di Dario Diofebi che mantiene il verseggiare originale in pentametri servendosi dell’endecasillabo sciolto della tradizione italiana. È sufficiente leggere un paio di battute per entrare nel meccanismo e restarne avvinti, con il risultato di un testo ben più interessante del semplice esercizio di stile che rischiava di diventare.
Come sottolinea più volte l’autrice, il racconto di Chaucer era già in sé un testo potentissimo e la voce di Alyson unica nel suo genere; ciò che fa Smith con la sua Alvita è rendere omaggio all’originale e caricarlo di nuove sfumature e significati alla luce dell’attualità entro cui si muove. Il discorso sulla sessualità, il desiderio femminile e l’indipendenza, si intreccia a una lingua schietta e ironica, al rifiuto di costrizioni sociali o religiose, ma anche alla riflessione su violenza domestica, ruoli e aspettative sociali, libertà solo fittizia. È qui che La donna di Willesdon perciò va oltre la riscrittura in chiave moderna di un classico della letteratura occidentale per farsi specchio di una società e delle sue contraddizioni, della curiosità narrativa di una scrittrice e la sensibilità verso determinate tematiche e spunti.
E ancora oggi, come si accennava poc’anzi, nulla pare scandalizzare di più del corpo e della sessualità femminile: nel corso delle rappresentazioni al Kiln Theatre di Londra, più di un uomo fra il pubblico ha abbandonato la sala, scandalizzato. Regno Unito, 2020, signore e signori, ma sarebbe accaduto qualcosa di simile – e in certi casi ben di peggio – anche in altri luoghi, di fronte a una donna che parla del proprio corpo, del piacere, del desiderio di libertà e che, anche nel raccontare la violenza domestica, rivendica il diritto di farlo a proprio modo, affrancandosi da stereotipi che riconoscono la donna solo quando corrispondente a un modello ben preciso, facile da inquadrare e, di conseguenza, controllare. Vittime, madri, mogli amorevoli, remissive, umili, poco vistose.
Alvita, con il suo abito rosso e le Jimmy Choo falsissime, con la sua parlantina vivace, schietta, con la sua personalità scandalosa, è l’esempio di una donna che non si lascia ingabbiare in uno stereotipo, non rientra in una categoria prestabilita e, a quanto pare, non smette di far alzare il sopracciglio a più di uno spettatore. Ai lettori italiani, adesso, accogliere questa storia, scevri speriamo da pregiudizi.
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