Le cronache dell’acero e del ciliegio
Libro 2. La spada dei Sanada
di Camille Monceaux
traduzione di Cinzia Poli
L’ippocampo, 2022
pp. 384
€ 15,90 (cartaceo)
Se i romanzi fossero dei film, e se le loro copertine fossero dei fotogrammi emblematici e riassuntivi di quanto vi accade, quella disegnata ancora una volta da Olivier Balez per La spada dei Sanada – secondo volume della tetralogia di Camille Monceaux Le cronache dell’acero e del ciliegio, in uscita oggi per L’ippocampo in traduzione italiana e già felicemente immaginabile come trasposizione per il grande o il piccolo schermo – non lascerebbe dubbi circa l’evoluzione del suo protagonista Ichirō. Lo avevamo conosciuto in versione dimessa e reietta sulla cover di La maschera del Nō, viandante solitario e straccione tra le vie di Edo, e lo ritroviamo adesso a cavallo e in armatura al centro del campo di battaglia nei pressi di Ōsaka, con lo sguardo volitivo sotto l’elmo adorno di mezzaluna e la lama sguainata con gesto minaccioso, preso di mira da nemici altrettanto armati e non meno feroci. Tutto (a partire dal lettering) rosseggia, in questa copertina, con una scelta cromatica che si fa campo semantico e annuncio profetico, a esplicitare come il prosieguo della storia dell’orfano dalle origini misteriose sarà all’insegna di una passionalità evidentemente “sanguigna” (dentro e fuor di metafora). Uno sviluppo dell’azione tutt’altro che pacifico, dunque, in cui le dinamiche urbane e le suggestioni teatrali che avevano caratterizzato il primo episodio verranno sostituite da atmosfere sempre più conflittuali pronte a degenerare nel peggiore dei modi, e in cui il giovane guerriero sarà a più riprese tormentato dal dubbio di combattere per i morti, per i vivi o per se stesso.
Non c’è pace, insomma, per il ragazzo fuggito da Edo in compagnia del fedele amico Shin, deciso a sostenerlo nel portare a compimento i suoi obiettivi: vendicare la morte del maestro Tenzen, recuperare e restituire la famigerata spada di Muramasa a un potente signore di Ōsaka e, non da ultimo, superare il dolore per la drammatica scomparsa dell’amata Hiinahime. Non sarà semplice, e del resto i due sodali non si fanno illusioni: privi di alleati e con la guerra che incombe da ogni parte, dalla loro hanno soltanto la risolutezza di chi non ha altra scelta che seguire la direzione obbligata tracciata dagli eventi. Bisogna andare avanti, dunque, costi quel che costi, ma come spesso accade quando si fa di tutto per non volgersi indietro è proprio il passato che ritorna come in una persecuzione, a ricordare come i misteri vadano svelati e gli enigmi risolti, pena la condanna a una vita priva di ogni senso e sottomessa agli istinti. Il futuro, da parte sua, non sarà avaro di incognite, imprevisti e novità: se i due non si aspettano che una giovane ninja di nome Seiren, appositamente ingaggiata, sta per imporre loro la sua ambigua presenza, Ichirō non può nemmeno lontanamente immaginare che dopo aver trascorso l’inverno in un tempio di montagna custodito da un monaco (in cui sperimenterà l’elaborazione del lutto della persona che era e che adesso non è più) dovrà affrontare sfide decisive che metteranno a dura prova la sua convinzione di essere, o voler essere, un valoroso guerriero. Forse non gli basterà nemmeno essere accolto nel clan Sanada, tra le schiere dei leggendari “dieci coraggiosi”, nella lotta contro lo shogun: perché un conto è studiare l’arte della guerra e allenare il proprio corpo alle più sofisticate tecniche di combattimento, un altro è affrontarsi corpo a corpo, uccidere per non essere uccisi, uscire definitivamente dal recinto confortevole della teoria “statica” ed entrare, con tutta la brutalità e la violenza del caso, nell’agone di una realtà a dir poco “dinamica”. Tanto più che nessuno scontro sembra essere determinante, e che il suo destino, qualunque cosa lui faccia per migliorarne l’andamento, sembra condannarlo con ostinazione al ruolo del fuggitivo, del ricercato, del vagabondo.
Se il primo volume di questa saga aveva offerto un ritratto del Giappone del XVII secolo tutt’altro che da cartolina, Camille Monceaux rincara la dose in questo secondo tomo, ancor più privo di manierismi e fedele a una verità storica che non contempla mistificazioni o lirismi di comodo. Venuto meno il conforto delle arti – quella poesia e quel teatro che a Edo avevano avuto un ruolo salvifico, prima di subire a propria volta la perversione di una malignità tutta umana – Ichirō e Shin sono costretti a confrontarsi con un mondo sempre più dominato da gerarchie, pregiudizi e sopraffazione, in cui è quasi impossibile fidarsi del prossimo. Nemmeno il castello di Ōsaka in cui riusciranno a entrare e a trovare un ruolo insieme a Seiren – dunque nemmeno il luogo che ci si aspetterebbe regolato da codici di maggiore onore e rispetto – è esente dalla dittatura dei rapporti di potere e dei servilismi, e persino quei samurai tanto vagheggiati e ammirati, una volta conosciuti, non sono poi così dissimili dai civili inermi, e dunque pronti a offrire una campionario di difetti, contraddizioni, vizi e vanità: «il mondo che mi ero illuso di conoscere» constaterà amaramente Ichirō «nascondeva spaccature, angoli segreti, ingiustizie e ambiguità di cui solo ora cominciavo a prendere coscienza» (p. 218). Forse c’è ancora qualche punto fermo, qualche baluardo di valore, qualche certezza in cui riporre la propria fede per non lasciarsi sopraffare dal cinismo e dall’ostilità preventiva, ma tra queste pagine tutto complotta affinché il protagonista venga temprato esattamente come un’arma sottoposta alle più dure prove di resistenza. Quella che lo aspetta è una crescita obbligata, una maturazione accelerata: è l’evidenza di un destino sicuramente eccezionale, ed è allo stesso tempo ciò che lo accomuna a tutte le figure con cui avrà modo di instaurare una relazione. Perché per quanto possa sentirsi speciale nella sua sfortuna, Ichirō comprende proprio nel confronto diretto con gli altri di non essere il solo la cui storia si fa tanto più complessa quanto più dolorosa.
Una nota a parte, a questo proposito, la merita il sistema dei personaggi, che pur confermandosi sempre piuttosto affollato, tra nuovi arrivi e vecchi ritorni, si rivela anche particolarmente ricco di presenze femminili affatto banali. Venuta a mancare la presenza soave e misteriosa di Hiinahime, la cui scomparsa ha lasciato in Ichirō uno struggimento profondissimo e unico nel suo genere – che cosa paragonare, d’altra parte, alla fine del primo amore, soprattutto se è stato stroncato violentemente sul nascere? – è come se Monceaux compensasse questa assenza con delle figure spiccatamente antitetiche rispetto alla fanciulla dagli occhi verdi e dalla fisionomia celata (sulla quale, peraltro, continua ad infittirsi il mistero circa l’origine e l’appartenenza religiosa). Se nel primo volume erano state le attrici, le geishe e le varie figure di sorelle e di madri (vere e adottive) a rivestire un ruolo di primo piano, La spada dei Sanada sembra esigere una connotazione marziale e spietata anche per la maggior parte delle donne che ne popolano le pagine, a partire dalle onna-bugeisha, le donne guerriere di cui Ichirō realizza l’esistenza solo una volta giunto a Ōsaka. A nessuna di loro sembra concesso indulgere nelle caratteristiche più stereotipate del presunto “sesso debole”: ciò accade per la ninja Seiren, la cui ambiguità professionale influenza il rapporto di progressiva intimità con Ichirō e Shin, ma lo stesso vale per la valorosa combattente e maestra di spada Yukitada, inflessibile e feroce ma capace di gesti oltremodo generosi e slanci confidenziali inattesi; per non parlare, poi, della già notoria Akemi, emblema di una protezione “matrigna” mai disinteressata e capace di sfociare nella persecuzione. Paragonato all’evidenza di questa femminilità indurita, costretta a dare anche il peggio di sé pur di esistere e di farsi rispettare all’interno di un sistema sessista, classista e implacabile come quello del Giappone seicentesco, anche il ricordo del modello gentile della defunta nutrice Oba si rivela per quello che è: la fine precoce di un’infanzia già piuttosto anomala e dunque l’inizio di un’adolescenza più che sofferta, troppo simile all’età adulta per la rarità di una compassione autentica.
Atteso e rischioso come ogni sequel, La spada dei Sanada non deluderà i lettori che hanno amato il romanzo inaugurale di questa saga ambientata nell’Estremo Oriente di quattro secoli fa; un avvio più che fortunato, che ha conquistato la giuria del Premio Strega Ragazze e Ragazzi ed è attualmente finalista nella categoria Miglior Libro d’Esordio. Se ciò accade non è solo perché Camille Monceaux prosegue nel racconto rinnovando la sua predilezione per quel contesto tenendosi ancora una volta alla larga da cliché e bozzettismi di sorta, ma perché l’autrice riesce a rendere comunque incredibilmente vicino un mondo altrimenti lontanissimo: calandovi l’universalità di molti temi tipici della letteratura young adult, e riuscendo nell’intento con un effetto finale tutt’altro che straniante, la scrittrice ci ricorda come determinati moti dell’animo umano siano indipendenti dalle epoche, dalle culture e dalle vicende più o meno avventurose di cui gli individui si trovano a fare esperienza nel proprio percorso esistenziale. E se, come sempre accade, ci si può maggiormente rispecchiare nelle caratteristiche di questo o quel personaggio – e stavolta Monceaux si rivela abilissima, come già detto, nel descrivere i nuovi ingressi femminili e nel farli reagire con e contro lo spirito del proprio tempo – non c’è dubbio che chiunque ritroverà nel giovane samurai quell’inconfondibile desiderio di scoperta e definizione di sé che, massimamente nell’adolescenza, porta alla formazione di un’identità, di un carattere e di un proprio ruolo nel mondo.
Delle quasi quattrocento pagine in cui vengono narrate le vicissitudini di Ichirō si apprezza di nuovo l’equilibrio di una prosa che alterna momenti di quiete riflessiva a bruschi capovolgimenti, pause rilassate e meditative a improvvisi colpi di scena, alimentando in chi legge la stessa inquietudine, la stessa allerta, la stessa frustrazione e lo stesso bisogno di risposte che determinano l’agire dell’aspirante guerriero. Così anche il finale necessariamente sospeso, che fa attendere presto il terzo volume – tra flashback rivelatori, mutamenti di focalizzazione, smentite e conferme di quanto fino ad allora si aveva avuto ragione (o no?) di dubitare insieme con l’eroe – serve a ribadire come l’età del giovane protagonista – l’età degli assolutismi, dell’assenza delle mezze misure, in cui tutto è solo bianco o solo nero e in cui ogni cosa e persona è “per sempre” o “mai più” – sia certamente quella in cui si sperimentano in modo più intenso l’inganno e il disinganno, ma anche quella in cui si inizia ad esercitare la pazienza – perché, come ripeteva il maestro Tenzen, “è la pazienza, assai più della forza, a fare i grandi guerrieri” – e a coltivare la speranza di ritrovare il senso smarrito delle cose, la fiducia nelle illusioni tradite e l’ambizione di un riscatto sempre possibile. L’età in cui, perduta la pace dell’infanzia, si capisce l’importanza di un mondo senza guerra nel quale realizzare i propri sogni: il contesto ideale per qualunque ragazzo che aspiri alla felicità, ma forse – e questo lo ripeterebbe Hiinahime – anche il colmo per un apprendista samurai, ovvero di un ragazzo prossimo a scoprire come la guerra possa trasformarlo in un “mostro” e a rendersi conto con sgomento, subito dopo, come proprio quel “mostro” non sia altro che un uomo.
Cecilia Mariani