Eretiche. Donne che riflettono, osano e resistono
di Adriana Valerio
Il Mulino, aprile 2022
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Il ruolo della donna è stato per
lungo tempo relegato ai singoli compiti domestici e quando alcune provarono a
uscire da questo copione imposto, non fu cosa gradita ai potenti. La
considerazione d’inferiorità del genere femminile fu comunemente presente in
tutti i secoli, ma, come questo fu presente, altrettanto presenti, furono le
donne che provarono ad alzare la testa, a predicare il Verbo cristiano o,
semplicemente, a proferire una parola diversa da quella che ci si doveva
aspettare, e, dunque, la prima e unica accusa mossa fu quella di eresia.
Adriana Valerio, in “Eretiche”,
ci trasporta attraverso due millenni di storia per scoprire come l’eresia sia
stata soprattutto, se non unicamente, uno strumento politico di repressione:
uno strumento che i potenti delle diverse epoche utilizzarono per far tacere o,
semplicemente, screditare tutte quelle donne che rompevano i tanti oliati
ingranaggi sociali. Profetesse, mistiche, religiose, false sante, streghe e
riformatrici furono le vittime predilette di questo gioco che si svolgeva fra
falsi processi e crudeli condanne.
Prima, però, di iniziare questo
viaggio, è necessario, almeno provare, a chiarire un interrogativo basilare
quanto complesso: che cosa è l’eresia? Chi decide cosa è eretico e cosa non lo
è?
Sono queste alcune delle
protagoniste di questo libro: donne audaci che hanno stato fronteggiare i
tribunali ecclesiastici, che sono state giudicate non in linea con le direttive
dell’ortodossia cattolica e per questo considerate «eretiche».
Ma loro non si ritenevano «eretiche»: chi stabilisce, infatti, i criteri
dell’ortodossia, chi giudica l’altro «eretico» e cos’è, in fondo, l’eresia?
(p.7)
È da questo enorme punto di
domanda che prende avvio questo lungo e inestricabile viaggio. L’eresia è «un
concetto relativo» (p. 10), poiché cambia e si trasforma in base sia alle
conoscenze culturali di quel particolare periodo storico sia alla concezione
morale ed etica di quel momento perché non ci sono dei canoni rigidi e
immutabili nell’eresia: quello che era condannato nel Trecento, non era lo
stesso del Seicento oppure quello che i primi cristiani criticarono non è, per
ragion di forza, quello criticato nel XIX secolo. C’è sempre, però, una costante:
la devianza dalla norma accettata. Chi trasgredisce, è considerato eretico. L’accusa,
perciò, si scatena quando le azioni oltrepassano i ruoli imposti.
L’insofferenza per il prestigio culturale di una donna che insegnava in luoghi pubblici –davanti ai templi pagani demoliti dalla nuova religione-, per la sua libertà di pensiero e per quella sapienza femminile non disposta a sottomettersi al potere istituzionale maschile. I secoli che verranno vedranno definire con più rigore i ruoli, le prerogative e gli ambiti di competenza che assegnarono alla donna lo spazio privato e all’uomo quello pubblico (p. 62).
Relegate, emarginate,
sottostimate e sottovalutate, frequentemente le donne si sono impegnate per
cercare ruoli che andassero oltre quelli dovuti, come Massimilla, Priscilla e
Quintilla, profetesse nelle prime comunità cristiane che, secondo il loro
personale punto di vista, diffondevano la parola di Cristo nei primi secoli del
Cristianesimo, non pretendendo di avere seguaci, ma di avere solo qualcuno ad
ascoltare la loro voce. In questo caso, però, non furono accusate di blasfemia
o di infangare la verità cristiana, bensì di “abbandonare i loro mariti” e,
dunque, di eccessiva indipendenza. Esse, in qualche modo, dimostrarono l’autonomia
della donna nei confronti dell’uomo e questo non era accettabile, giacché la
classe dirigente, allora come poi per lunghi secoli, era maschile: «in ogni
modo, se la profezia femminile era accettata in quanto esperienza estatica,
attestata sia in ambito giudaico che pagano, non lo era la parola pubblica» (p. 50).
Le tre profetesse presero,
dunque, distanza dagli obblighi familiari e, di conseguenza, da quelli sociali:
la donna doveva essere madre e moglie e non erano accettate altre funzioni, men
che meno quelle religiose. Per di più, con le loro parole, minarono l’autorità
ecclesiastica, dimostrando anche come le donne potessero discutere di religione
o porre quesiti teologici che, spesso, mal s’incarnavano con la volontà terrena
e materiale della Chiesa, come le mulierculae,
letteralmente “donnette”, passate alla Storia come “beghine”, fenomeno
religioso che abbracciò un lunghissimo periodo, dal XII al XV secolo, e un’ampia
area geografica. Queste donne, spesso nubili o vedove, “osavano” commentare la
Bibbia in pubblico, interrogandosi sui fondamentali quesiti teologici, ad
esempio com’era possibile l’unione, almeno in via teorica, tra la povertà
descritta nelle Sacre Scritture e l’opulenza di alcuni vertici ecclesiastici. A
muovere l’accusa fu, ancora una volta, l’indipendenza: furono, infatti,
perseguitate quando iniziarono a creare comunità indipendenti e
autosufficienti, insomma quando dimostrarono di poter vivere senza il sostegno
di una figura maschile.
L’eresia nei confronti delle
donne non è in funzione di quello che dicevano, ma perché, banalmente, osavano
dirlo e, quindi, dimostravano un’indipendenza intellettuale che non le era
permessa. Non è, qui, sotto esame la veridicità delle loro parole o credenze,
ma il meccanismo sociale di repressione fisica ed etica della libertà femminile.
Da una parte, dunque, il controllo della parola e della libertà di pensiero e
dall’altra lo screditamento del genere femminile: due meccanismi che ben
avvilivano e, in tanti casi, annientavano l’imputata. Una subentrava all’altra
quando non era raggiunto lo scopo, come in un gioco tra le parti che metteva al
centro la figura della donna.
Lo screditamento accadeva
attraverso ingiurie o la denigrazione dell’intelletto femminile. Secondo i
manuali inquisitori, tra i più noti il Malleus
Maleficarum, la donna sarebbe stata, infatti, più sensibile alle lusinghe
del Diavolo. La facilità, con cui esse sarebbero state più portate a farsi
influenzare dal Diavolo, è un’evidente, e poco sottile, indicazione di come il
genere femminile non sarebbe stato in grado di riconoscere il bene dal
male per le scarsa e indubbia moralità e, in qualche modo, anche per
l’intelletto inferiore.
Le donne diventarono il capro
espiatorio di paure e frustrazioni determinando una vera e propria «notte
dell’anima»
e «oscuramento
della ragione». La religione di Gesù Cristo fu rovesciata e sostituita dalla
religione di Satana (p. 101).
Quello di Adriana Valerio è un
saggio che ha il merito, non solo di raccontarci
le vicende delle “eretiche”, ma anche quello di porsi davanti ai rigidi schemi
sociali e di riuscire a scomporre, secolo dopo secolo, questi meccanismi tanto
comunemente messi in atto. È il racconto di accuse, processi, condanne, ma
anche della paura che tanto attanagliò gli uomini per lungo tempo.
Giada Marzocchi