di Alessandra Sarchi
Minimum Fax, 2022
pp. 140
€ 16 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Smarrimento. Si racchiude in questa parola, con le sue molteplici implicazioni, ogni racconto che compone l’ultima raccolta di Alessandra Sarchi, Via da qui, pubblicata di recente da Minimum Fax. Scrittrice raffinata, autrice di racconti, di saggi e di romanzi, della forma breve Sarchi mantiene sempre quello sguardo peculiare sulle cose ed è qui, a mio parere, che si trova la dimensione narrativa a lei più congeniale, istintiva, dai frutti più interessanti (qui trovi le altre opere di cui ci siamo occupati). È una raccolta molto coesa, senza alcun camuffamento da “romanzo in racconti” o altre forme ibride, sono semplicemente cinque storie ognuna indipendente dall’altra che tuttavia concorrono nell’insieme a orchestrare un’armonia di tematiche e spunti narrativi, e si collocano idealmente l’una accanto all’altra.
Smarrimento, si diceva, è il perno narrativo: la discrepanza fra ciò che si era immaginato e desiderato per la vita adulta e ciò che invece è diventata, le crepe e la frattura che cambia ogni cosa e lo smarrimento, quindi, di non sapere più dove trovarsi, quale posto occupare. Ecco, perciò, che nel disorientamento dei protagonisti di queste cinque storie i luoghi, la casa, assumono un significato profondo, una valenza che va ben oltre la semplice ambientazione. È l’abitazione condivisa nella campagna toscana di due compagne di università che nel tempo diviene casa – la tana, come la chiamano loro – e famiglia, mentre evolve la loro stessa relazione e l’amicizia diventa amore; sono i luoghi dell’infanzia lungo gli argini del Po a cui tornare dopo tanta vita e tanta distanza, nel tentativo di riprendere familiarità con le cose, le persone, la lingua perfino; il sottotetto di una palazzina bolognese proprietà di una principessa occupato abusivamente da due giovani ai margini, che nella precarietà tentano di sopravvivere e creare una casa; è una terra straniera in cui decidere se restare o partire dopo la fine di una relazione difficile e se partire scegliere dove andare e chi essere; è un’altana veneziana dove riunire vecchi amici e interrogarsi sul deragliamento dei propri sogni.
In ognuna di queste storie, Sarchi racconta il momento dopo che qualcosa si è rotto e in quella frattura posa lo sguardo per indagare le pieghe delle relazioni, del disorientamento dei personaggi, le contraddizioni e le debolezze. È in quella zona che si muove la narrazione, in quel frammento che diviene racconto, il cambiamento, se ci sarà, resta fuori dall’inquadratura. Sono racconti dal carico emotivo ogni volta diverso ma ugualmente forte, che Sarchi tratta con delicata sensibilità, dimostrando ancora una volta uno sguardo pieno di grazia sulle persone. Uomini e donne di cui mette a nudo le fragilità e le mancanze, vulnerabili, per questo umanissimi.
Il primo racconto, “La tana”, è per certi aspetti il più carico di dolore: in quella relazione, in quella dimora diventata casa e famiglia, irrompe la tragedia, un incidente mortale e decisioni difficili da prendere. Ma accanto al dolore si posa un sentimento diverso, lo scoramento per una realtà che non riconosce alcun diritto a una coppia di donne che per legge sono soltanto due coinquiline, senza alcun legame di parentela, e sono invece i genitori della vittima, che non sanno nulla, a decidere che cosa fare, se espiantare o meno i suoi organi. Evelyn è morta, ma Monica non è nessuno. Si muove tra le stanze che hanno abitato insieme e che presto abbandonerà, mentre qualcun altro prende decisioni tanto importanti.
Vicinanza, estraneità: sono due poli che ritornano in racconti diversi. Un’estraneità dovuta alla lontananza, alla perdita di una familiarità un tempo quotidiana, da ricostruire pezzo per pezzo; mentre ci si adatta a un luogo, mentre si immagina il prossimo capitolo della propria vita dopo la fine di un matrimonio, due sorelle si ritrovano dopo molti anni e chilometri tra loro a condividere di nuovo gli stessi spazi, a tentare di riconoscersi l’un l’altra:
Bisognava lasciarle il tempo di adattarsi, o forse era una questione di adattarsi di nuovo a vicenda, ai gesti che una fa quando mangia, ai rumori di quando cammina, alla faccia che ha al mattino appena sveglia, tutte quelle cose che rendono una persona famigliare. Ma questo significava poi conoscersi? (“L’argine”, p. 44)
L’abitudine all’altro, da ricostruire. Osservate dagli occhi di una bambina, che cerca di capire che cosa faccia quella zia tornata dall’America nell’afa padana, in una casa abitata solo da donne. È tornata lì per scoprirlo, tornare a quei luoghi, alle radici, sembrava la risposta più giusta, anche forse la più difficile. L’estraneità attraversa le storie, assume contorni di volta in volta diversi: sono due sorelle appunto che provano a ritrovare la quotidianità del coabitare, sono donne in un paese straniero, due mondi e due lingue che paiono accavallarsi, l’una che finirà per predominare sull’altra, inevitabilmente. E qualcosa, allora, è destinato a perdersi. Può essere il significato di “cadrega”, qualcosa che prima era noto e familiare e ora si va dissolvendo o le radici, l’appartenenza a un luogo, l’essere riconosciuti.
Via da qui sono soprattutto storie di precarietà di situazioni e sentimenti, basi talvolta troppo incerte per costruire una vita, una famiglia. Un uomo e una donna che hanno perso tutto, vivono abusivamente in stanze che giorno per giorno chiamano casa, arrangiandosi con risparmi ed espedienti:
[…] in un mondo in cui la promessa di felicità veniva associata al lusso e questo sempre presupponeva una disuguaglianza economica, il loro era un sistema innocuo e marginale per godere di beni senza possedere la forza economica per esserseli procurati né la violenza e l’ingiustizia che tale forza a sua volta postulava. (“Il palazzo della principessa”, p. 82)
Ma la scoperta di un figlio in attesa mette di colpo in evidenza tutte le crepe lungo la facciata, il dramma della precarietà e la mancanza di appigli stabili. È difficile leggere tra le righe di questa storia senza farsi coinvolgere e indignarsi: a quanti di noi, quante volte, è capitato di sentirsi traditi dalla mancanza di possibilità, dalle generazioni che ci hanno preceduti, da un sistema che si è inceppato? Lo stesso sentimento che attraversa il bel racconto finale, “Fondamenta della Misericordia”, gli equilibri fragili e il senso di instabilità che trova in Venezia lo sfondo ideale a raccontare una storia di promesse non ripagate, sogni calpestati.
Fuori dalle assi di legno dell’altana circondata da altri tetti, sospesa sull’acqua nera su cui galleggiava la città, erano rimasti i bambini non avuti e desiderati, le guerre, le carriere facili e quelle ostacolate, e la responsabilità tutta delle loro vite la cui ancora nessuno più sapeva dove fosse stata calata. (“Fondamenta della Misericordia”, p. 140)
Una città che galleggia, preda delle maree, come galleggiano incerti un gruppo di quasi quarantenni che tentano di venire a patti con la distanza fra il sogno e la realtà, tra ciò che si era immaginato per il futuro e ciò che si è rivelata la vita adulta. E allora Venezia, bellissima e crudele, un terrazzino tra i tetti dei palazzi, è il posto dove ritrovarsi insieme e lentamente mettersi a nudo, rivelando bellezza e fragilità, sentimenti e mancanze.
Che cosa resta, che cosa ci consente di sopravvivere, di accettare il fallimento, la perdita, i sogni disattesi? Le connessioni umane. Sono l’unica ancora di salvezza possibile: traballanti, forse, imperfette, di certo, ma l’appiglio che permette di non affondare. Brindare a ciò che si è sognato e non si è ancora riusciti a raggiungere, sopportare l’umidità per accompagnare una sorella nella ricerca di sé stessa e delle proprie radici, offrire una possibilità di fuga a un’amica che deve ricominciare. Vedere la bellezza. Anche se farlo richiede uno sforzo, anche se significa mettersi in punta di piedi nello spazio ristretto e maleodorante di un ristorante per osservare da un punto di vista nuovo fuori da un oblò un panorama perfetto.
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