di Enrico Brizzi
Solferino Libri, maggio 2022
pp. 752
€ 22,00 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
Don Camillo e Peppone sono stati due buoni compagni della mia infanzia; due figure proverbiali uscite da un libro che mi confortava nei pomeriggi di febbre e profumava di campagna come le stori dei nonni, ma a differenza di quelle, imbevute di sgomento per come l'odio e la violenza avevano cancellato un mondo, sapeva infondere una quiete fuori dal tempo. (p. 14)
Giovannino Guareschi, per tutti, è il padre letterario di Don Camillo e Peppone, iconiche figure rese celebri a livello planetario dall'interpretazione di Fernandel e Gino Cervi.
O meglio, Giovannino Guareschi è quel nome che si scopre quando si citano Don Camillo e Peppone perché la sua fama, a differenza dei personaggi da lui creati, non è così universale né lo è il gradimento per la sua prosa o le sue opere. Giudicato vignettista e umorista di calibro – nel migliore dei casi – e giornalista politico dalle nostalgie monarchiche e scribacchino velenoso – nel peggiore –, Guareschi non ha mai goduto della fama e del riconoscimento tributato ad altri suoi contemporanei e colleghi come Giovanni Mosca. Esiliato dai circoli culturali, che aborriva, in vita, escluso dalle antologie e dagli studi accademici, in morte, è uno degli autori italiani più letti e tradotti all'estero e si contende il primato con Collodi e Umberto Eco. Perché questa damnatio memoriae che solo a inizio del nuovo millennio ha iniziato a stemperarsi?
Per capirlo bisogna ripercorrere la turbolenta storia d'Italia del Novecento, secolo "breve" ma pieno di rivolgimenti e lotte interne ed esterne. Lo sa bene Enrico Brizzi che in Il fantasma in bicicletta, partendo con l'idea di fare luce su un reportage ciclistico svolto da Guareschi nel 1941 per il Corriere della Sera, decide di ripercorrere con il suo gruppo di ciclisti, I Forzati della strada, il giro fatto dall'autore alla ricerca di tutto quello che ha formato, nutrito e osteggiato lo scrittore della Bassa. Il giro ciclistico non è che un pretesto per ricostruire, in maniera molto dettagliata, la vita e la temperie culturale che Guareschi ha attraversato e per approfondire il suo corpus di opere di cui Don Camillo e Peppone rappresentano solo una parte. Non si tratta di un panegirico, non si nascondono gli aspetti meno da galantuomo dell'autore, ma si affronta con la massima onestà il buono e il cattivo di questo grande – che piaccia o meno alla critica – autore che ha fatto la storia del Novecento politico e letterario.
«Se domani mi dicessero che Guareschi è diventato abate, non mi meraviglierei. Perché Guareschi è uno dei pochi uomini al mondo che può fare tutto, diventare tutto, aspirare a tutto». (pp. 135-136)
Così diceva di lui Giovanni Mosca, il celebrato autore di Ricordi di scuola, e ripercorrendo la carriera di Giovannino Guareschi ci si sente di dargli ragione solo per quanto riguarda il lato artistico: se c'era una cosa a cui Guareschi non poteva aspirare era quella di saper sfruttare le connessioni, le influenze politiche e a capire quando era il momento di fermarsi prima di cadere nel baratro. Una costante della vita di Guareschi è stata quella di essere, bene o male, confinato all'opposizione, pronto a dare addosso al potere costituito senza sconti a destra e a sinistra tanto da non avere quasi nessuno a piangerne la prematura scomparsa nel 1968.
Lo scrittore tradotto in tutto il mondo, il polemista incendiario che ha spostato l'ago della bilancia alle elezioni politiche e s'è fatto incarcerare pur di non chiedere scusa, l'ideatore di Don Camillo e Peppone, due personaggi che hanno portato al cinema decine di milioni di spettatori, se ne va salutato da pochi sotto la pioggia che comincia a sferzare l'orizzonte sterminato della Bassa. (p. 671)
Accusato di essere autore di riferimento della Destra estrema lui che pur di non collaborare con la Repubblica di Salò si fece internare nei campi di concentramento in Germania; poi di essere un riferimento per il Partito Comunista, lui che era un monarchico e un conservatore irriducibile; sostenitore della DC solo nel momento in cui c'era da allontanare la minaccia rossa, scontò anni di galera per diffamazione a mezzo stampa a carico di De Gasperi; ferocemente contrario alle innovazioni e alle modernità nei rapporti e nella famiglia, lui che aveva avuto un figlio illegittimo a cui è stato riconosciuto il cognome solo quarant'anni dopo la morte del padre. Di lui ricordiamo quasi sempre solo le sognanti favole vere portate sullo schermo al ritmo delle musiche di Cicognini, lui che odiò con appassionata convinzione ogni riduzione cinematografica dei suoi personaggi, convinto che tradissero lo spirito del Mondo Piccolo e annacquassero la tensione politica dell'Italia del secondo dopoguerra.
La parte di dettagliata biografia, che è anche una biografia dell'Italia del secolo scorso, di Brizzi ha il merito, oltre a essere completa e scorrevole come un romanzo, di portare concretezza negli avvenimenti di vita di Guareschi e anche di andare a scavare dove la finzione narrativa si sostituiva alla realtà. Nel ripercorrere il Giretto del 1941, Brizzi confronta in maniera puntigliosa le tappe, controlla i chilometri, fa irrompere la cruda realtà nella prosa guascona dello scrittore della Bassa.
Il Passo Sella è posto a 2240 metri di quota. Affrontato al versante di Canazei, presenta 11,4 chilometri di salita continua, con pendenza media del 6,7 per cento [...] Certe cifre, nel ciclismo, suonano pesanti come sentenze: per un ciclista come Giovannino, in sella a una «semi-corsa» dalla sella destinata al turismo e armata a sole tre velocità, si tratta di difficoltà letteralmente improponibili. (p. 223)
Se da un lato dispiace vedere dispersa la nebbia sognante delle favole portate al mare dal Po, dall'altro si ringrazia per la concretezza con cui viene affrontata la vita e la produzione artistica dell'autore: sarebbe uno sgarbo intollerabile non riconoscere il suo impegno politico, il peso che ebbe nelle elezioni del 1948 e che portarono la DC al governo italiano – sua la frase "nella cabina elettorale Dio ti vede e Stalin no" – e il suo rifiutarsi di consolidare i legami che in quell'occasione aveva stretto.
«Paragonando l'estremismo a una medaglia, Peppone è il diritto e Don Camillo il rovescio della medaglia» argomenta con Rizzoli. «Sono due facce della stessa identica realtà. L'azione di Peppone provoca in Don Camillo una reazione di uguale carattere e misura: ma qui (essendo Don Camillo un uomo più preparato e educato intellettualmente di Peppone) l'intervento della sua coscienza di cristiano onesto e civile (voce del Cristo) lo riporta alla ragione». (p. 394)
Importante e sicuramente molto stuzzicante per il lettore la parte dedicata ai film di Don Camillo e Peppone, personaggi nati per riparare a un buco nell'uscita del Candido, il giornale che dirigeva con Mosca, e la cui fama non ha mai smesso di crescere. Curiosità sul fatto che Brescello non sia mai in realtà citato nei racconti e sia stato scelto da Duvivier, il regista del primo film di Don Camillo; o su Gino Cervi che in origine doveva interpretare Don Camillo e Guareschi stesso rivestire i panni del sindaco comunista; le variazioni alle sceneggiature che fecero inorridire l'autore e insultare ogni singolo regista che abbia mai avuto il coraggio di mettere mano al suo materiale; la disamina puntuale delle scene dei vari film e di quali allusioni politiche nascondessero. Abbiamo tutti, almeno una volta, visto passare una replica dei film e vedere gli ulteriori messaggi nascosti in una pellicola di svago e sano umorismo spinge a riconsiderare tutto il lavoro sotto una luce diversa, più cupa e pesante.
Il giro in bicicletta di Enrico Brizzi, i suoi incontri con Albertino, il figlio di Guareschi, e le sue ricerche incidono in maniera relativa sull'insieme del volume e occupano anche uno spazio relativamente esiguo, ma hanno due funzioni: la prima è quella di scongiurare che il testo sia solo una biografia; la seconda è portare Giovannino Guareschi nel presente per far vedere che se le maschere di Peppone e Don Camillo sono il simbolo di un'Italia che ormai non c'è più, il loro creatore è invece meritevole di attenzione e riconsiderazione, già partita a inizio millennio, per dimostrare che l'uomo dietro la firma brandizzata è stato un interprete della nostra cultura letteraria che non merita il confino nella "letteratura bassa". Un autore che, a voler cercare di capire chi fosse veramente, viene definito come un libero pensatore, uno pronto ad attaccare il potere senza paura e a pagarne le conseguenze sulla propria pelle nello scoprire che, sia in dittatura che in democrazia, le critiche alla classe dirigente non sono mai accolte. Il tutto, ovviamente, narrato con sole duecento parole: ché della letteratura e di tutta quella mercanzia, il Nostro non sapeva proprio cosa farsene.
Giulia Pretta