Un incontro privato con Jennifer Egan, in occasione della pubblicazione del suo ultimo, attesissimo romanzo, La casa di marzapane, edito da Mondadori per la traduzione di Gianni Pannofino. Dialogare con la scrittrice premio Pulitzer è stato un privilegio e il mezzo ideale per entrare meglio dentro la storia, coglierne le varie implicazioni, ma anche per riflettere sul mestiere di scrivere, il ruolo della letteratura, l'esperienza umana trasformata dalla tecnologia.
La casa di marzapane di Jennifer Egan Mondadori, 2022 pp. 384 € 22 (cartaceo) € 11,99 (ebook) Vedi il libro su Amazon |
A colpire immediatamente il lettore è la polifonia intrinseca ne La casa di marzapane: come è nata questa scelta e come viene costruita una struttura a scatole di questo tipo?
L’ho fatto in modo assolutamente conscio, volevo che questo libro fosse polifonico da quando ho iniziato a pensarci proprio perché desideravo fosse uno dei fattori comuni agli altri libri che ho scritto. È una cosa che mi piace quella di avere un cast di personaggi fatto di varie voci anche perché questo mi permette in un libro solo di raccontare molte storie. La maggiore sfida è stata come riuscire a mettere insieme e a far coincidere tutte queste voci in modo tale che non confliggessero e nello stesso tempo mi dessero la possibilità di capire sempre di più come strutturare il libro. La seconda cosa da considerare è stata quale di tutte queste sarebbe diventata la storia principale: è una cosa che è emersa gradualmente, come accade sempre con i miei libri perché io sono una scrittrice che ama molto improvvisare con il proprio lavoro, perciò lascio che sia il mio lavoro piano piano a darmi delle indicazioni su quella che è la storia principale da seguire.
Per esempio, dal punto di vista della tecnologia: questo aspetto dell’aver introdotto la tecnologia è venuto più in là, perché sapevo che il mio personaggio avrebbe inventato qualcosa di importante e quindi ho aspettato io stessa di capire meglio come inserire questo tipo di situazione dentro la generalità delle voci.
Sempre sulla polifonia: volevo riaffrontare quello che avevo fatto in Il tempo è un bastardo, che è costruito come se fosse una collezione di canzoni e volevo che questi pezzi si inserissero dal punto di vista sonoro insieme. E non volevo ripetere quello già fatto nelle opere precedenti e quindi ho pensato che la tecnologia fosse un buon mezzo per far funzionare questa macchina che è la nostra coscienza.
Nel corso della conversazione, Egan riflette sulla genesi del romanzo, che riprende alcuni personaggi e temi già apparsi ne Il tempo è un bastardo:
Ho iniziato a pensare a questa cosa mentre ero in giro per l’America in tour a presentare Il tempo è un bastardo ed è abbastanza inerente alla sua costruzione, il fatto di essere estremamente aperta come trama, non avere una fine ma che dava la sensazione al lettore che ci sarebbe stato qualche cosa che sarebbe continuato. Questo è un po’ anche il mio modo di vedere il personaggio, che dentro la sua mente ha tutto un mondo di altri personaggi che potrebbe essere al di là di quello che vediamo sulla pagina. Ho ripreso alcuni personaggi del libro precedente, ma ho scelto quelli più opachi, quelli minori, che magari non si vedevano neanche mai e la transizione da personaggio sconosciuto a farlo assurgere a una loro vita propria dentro il mondo secondo me è una mia inclinazione naturale.
Traspare con molta evidenza nei suoi romanzi la capacità di osservare le contraddizioni del quotidiano e l'intreccio indissolubile fra storia e modo di raccontarla, anche facendo uso di sperimentazioni narrative (penso per esempio alle parti in powerpoint de Il tempo è un bastardo): è questo il linguaggio narrativo ideale per raccontare la società contemporanea?
Sì, indubbiamente sono molto interessata a descrivere i dettagli della vita quotidiana delle persone e voglio sempre partire dalla sensazione fisica del luogo, del loro mondo, ecco perché parto da una descrizione del luogo dell'ambiente e non dalla descrizione del personaggio. Cerco di far capire come ci si sente dentro il proprio corpo quando si è in un luogo specifico. Poi l’altra cosa è riuscire a dare una visione del mondo al mio lettore, quali sono i pensieri del personaggio, tutto questo contribuisce alla nozione della storia che poi diventa parte della nostra storia personale, di ciò che ci spaventa.
Dal punto di vista della strutturazione di un romanzo c’è sempre un elenco che io traccio di cose che mi piacerebbe fare/descrivere/inserire, quello del Power Point era una, un’altra cosa era scrivere un pezzo usando solo la prima persona plurale, uno servendomi della forma epistolare, usare Twitter; ma non mi piace sovrapporre la mia voglia di descrivere una situazione con le vicende del personaggio, preferisco aspettare e provare a saggiare se le soluzioni che trovo vanno bene altrimenti mi fermo, perché voglio che ci sia la voce giusta: le cose che inserisci in un romanzo funzionano dal punto di vista strutturale solo se vengono dette dalla voce giusta, basta un mezzo tono in meno e la cosa non funziona più. Per esempio questo è un libro dove ci sono un sacco di fallimenti e se le soluzioni che tu trovi non funzionano ti accorgi che la scelta strutturale che avevi fatto è una scelta troppo costrittiva e non ti permette di dare quelle possibilità che una scelta giusta dal punto di vista strutturale ti può dare. È un mix: ci vuole lo spazio fisico, il personaggio, la struttura che combaci con questi altri due fattori; allora si riesce ad avere questa apertura, un panorama sulla base del quale lavorare, allora viene anche l’entusiasmo. Devi rinunciare a molte cose per far si che un romanzo funzioni.
La tecnologia è uno dei centri nevralgici del romanzo e insieme a Egan riflettiamo su come questa abbia trasformato l’esperienza umana, sia dal punto di vista individuale che sociale.
Credo sia una cosa che ci stiamo chiedendo tutti. Le posso dire perché ho deciso di fare ricorso alla tecnologia e perché appare in modo così pregnante: siamo tutti piuttosto entusiasti dell’uso che si può fare della tecnologia in questo momento, i miei personaggi come molti di noi; i personaggi della mia storia usano la macchina di Mandala per capirsi meglio, per capire meglio le proprie esperienze e quelle delle persone che amano, per ricostruire frammenti della propria vita. Secondo me è un libro che stimola e motiva la curiosità che una persona ha del mondo e delle persone che lo circondano e che formano il suo ambiente.
A mio avviso la tecnologia non cambia chi siamo, ma cambia il modo in cui passiamo il nostro tempo e un po’ la nostra stessa storia. Se da un certo punto di vista poi la tecnologia è neutrale, le aziende che controllano non lo sono di certo, sono tutte organizzazioni a scopo di lucro e si rendono conto che la cosa che ha più effetto e coinvolgimento su di noi è la rabbia, quindi ci propinano continuamente contenuti che scatenano quel tipo di reazione per tenerci attaccati alle piattaforme. Stimolano la nostra conflittualità e questo è decisamente negativo.
Il romanzo è si muovo intorno a molteplici suggestioni e temi, a cui non viene data una risposta univoca, una verità ultima: come se volesse spingere il lettore a interrogarsi e, forse, trovare da sé le risposte. È questo secondo lei che deve fare la narrativa? Mettere in luce determinati aspetti contraddittori della contemporaneità, le zone d'ombra, e lasciare che sia il lettore a interrogarsi e forse trovare le risposte? Quali sono stati i modelli, le influenze?
Se trovo la verità ultima giuro che la metto dentro un libro e la divulgo :D
La verità, diciamocelo, non la troviamo, però secondo me la narrativa non è il luogo dove trova le risposte, ma il luogo dove invece trovare molte domande. Per altro sono anch’io una giornalista e capisco benissimo il problema di porsi una domanda e trovare una risposta, ma è una questione del giornalismo appunto, mentre la narrativa deve avere ancora un pizzico di mistero. Se dovessi scrivere un romanzo che fornisce tutte le risposte non lo finirei neanche, mi annoierebbe, quando scrivo voglio riuscire ad andare oltre, in un modo più profondo e “strano”, come spesso è stata definita la mia scrittura.
Il mio approccio è proprio questo: cercare di stimolare l’entusiasmo da parte di chi mi legge ma anche da parte mia che lo scrivo. Direi che proprio il fatto di scrivere dei libri che possono essere giudicati strani lo trovo molto positivo e per me ci deve essere proprio questa sensazione di mistero, che tu ti ponga da lettore delle domande e rimanga ancora un piccolo alone di mistero, che ti avvicini alla risposta ma non non la trovi all'interno della storia. Quella che è la narrativa didascalica la trovo molto molto noiosa, non voglio leggere una cosa dove mi venga detto cosa pensare, ma al contrario voglio leggere una cosa che mi stimoli, che non mi dia delle risposte, che mi spinga a cercarle.
Credo che i grandi scrittori come Wharton, DeLillo, Carol Oates, per quel che riguarda la letteratura statunitense, siano tutti autori che hanno scritto libri "strani", ma forti: ecco io voglio questo tipo di forza, di energia inesauribile. Specialmente in un libro come questo che comprende tanti punti di vista diversi, non ci deve essere una risposta giusta, perché l’avere una sola risposta giusta contraddirebbe la soggettività dei personaggi. Il fatto che operino una scelta giusta o sbagliata non è così importante: l’importante è che non ci siano i buoni e i cattivi da una parte e dall’altra ma che ci sia questa prospettiva più aperta anche a considerare i diversi punti di vista. Uno degli altri obiettivi che mi ero posta è stato quello di complicare la storia e il punto di vista del lettore: siamo di fronte a un’immagine della casa di marzapane, il bene e il male, nelle favole sappiamo bene chi è il male, in questo libro no. C’è una rivelazione, questa macchina che però è stata inventata da un brav’uomo che non voleva fare del male e questa tra l’altro è una situazione che si verifica anche molto spesso oggi: tu fai una cosa e ti accusano di averla fatta deliberatamente per far del male, quindi il lettore mi auguro attraverso questa storia sappia bene che non è così semplice giudicare la gente, perché si può partire da delle buone intenzioni e creare cose che arrivano nel mondo che poi hanno un effetto assolutamente diverso dallo scopo per cui le si era concepite.
Concludiamo soffermandoci un momento sulla scelta del titolo, la sua genesi e la metafora che rappresenta.
Mi è venuto naturale trovarlo, soprattutto perché se ne fa menzione in uno dei capitoli. Ho deciso di trasporre quella scena nel titolo, anche perché dove si cita la casa di marzapane nel libro è una scena abbastanza leggera: ci sono queste due donne dell’industria musicale che cercano di sopravvivere all’avvento di Napster e arginare il download gratuito pensando a una campagna in cui si dica in sostanza “diffidate da quelli che vi offrono la casa di marzapane” (cioè le cose gratis). È stato come immaginare di dire a chi legge “attenzione, non fidatevi di chi vi da le cose facilmente, senza pagarle, perché c’è sempre uno scotto invece da pagare”. Mi è quindi sembrato un titolo naturale e suggerisce bene questa situazione di essere attratti da qualcosa senza intuirne bene i pericoli. Poi c’è anche la menzione alle favole e questo libro è appunto un libro in cui lo storytelling la fa da padrone e quindi mi sembrava naturale.
Ringraziamo la casa editrice Mondadori per l'incontro e l'interprete Paolo Maria Noseda.
Intervista a cura di Debora Lambruschini
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