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Tra aspettativa e riscatto, le telegrafiste della sezione femminile di Napoli, raccontate da Matilde Serao

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Telegrafi dello Stato

di Matilde Serao
Alessandro Polidoro Editore, 2022

pp. 100
€ 12,00 (cartaceo)

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“Quando tutti si godono la festa, noi in ufficio: il Padre Eterno si è riposato il settimo giorno, e noi non riposiamo mai”.


Telegrafi dello Stato è un racconto di Matilde Serao che apre il volume Il romanzo della fanciulla e oggi ripubblicato da Alessandro Polidoro Editore. È un’opera di 96 pagine, che si compone della prefazione di Vincenza Alfano e di un’intervista all’autrice di Ugo Ojetti nel dicembre 1894. 

Ispirandosi a una personale esperienza di lavoro, Serao denuncia le condizioni di lavoro delle donne nella sezione femminile dei telegrafi di stato della Napoli di fine Ottocento, una città divisa fra moti di modernità e anche rigide norme conservatrici. Come osserva Vincenza Alfano nella prefazione: 

“Se da un lato il racconto della Serao ci restituisce tutto il fascino che il telegrafo esercitò sull’immaginario dell’epoca, rendendo immediate le comunicazioni da un capo all’altro della Penisola, lascia però traspirare in modo piuttosto evidente anche la diffidenza che un’intera generazione di scrittori dell’epoca sentì nei confronti della macchina. Il racconto è infatti dominato, fin dall’inizio, da un senso di inquietudine che ne preannuncia l’epilogo. Non usa toni patetici né languidi sentimentalismi Matilde Serao. Ma sono chiaramente riconoscibili l’amore, la tenerezza, e la passione con cui è scritto il racconto… (p. 14).     

Ci troviamo davanti a racconto potente e di avanguardia per il suo tempo, che pone l’accento sul quotidiano di giovani donne che la stessa autrice ben conosceva, essendo stata per tre anni impiegata come telegrafista alle Poste centrali di Napoli, dopo aver vinto un concorso, appena terminati gli studi.

Le protagoniste, come si evince anche dal sottotitolo "(Sezione femminile)", sono le donne e per ognuna la Serao declina nome e cognome a cominciare da Maria Vitale, Giulia Scarano, Sofia Magliano, Maria Immacolata Santaniello, Serafina Casale, Emma Torelli, Agnese Costa, ma ci sono anche Caterina che è miope, Adelina che lavora per farsi il corredo, perché vuole maritarsi. Avviene così una polifonia di storie, concertate in maniera arguta e sincera, che esprimono una realtà vera, dai toni schietti e autentici. Una sequela di personaggi descritti con capacità, dai tratti nitidi e puntuali, in cui emerge l’aspetto più intimo e i drammi interiori di una generazione.    

[…] La tipografia del Pungolo era sbarrata: per i vicoli di Montesanto, di Latilla, dei Pellegrini, dello Spirito Santo che sbucavano nella piazzetta, non compariva nessuno. […] Allora Maria Vitale mentre si avviava, sorpresa dal silenzio e dalla solitudine, fu colta da vaga inquietudine. “Sono forse uscita troppo presto”, pensò. Batté il piede in terra pel dispetto. Non avevano orologio, in casa, e alle sette meno cinque minuti, ella si doveva trovare in ufficio. (pp. 17-18)   

Le telegrafiste provengono dai diversi quartieri della città, lavorano con turni da mattina a sera, di domenica e nelle feste, non sono escluse da rimproveri e umiliazioni, devono arrivare puntuali altrimenti incorrono nella multa dalla direzione: una lira. Il lavoro le assorbe completamente al punto che non si accorgono nemmeno del sole in inverno quando fa capolino nelle stanze, perché sono tutte a testa bassa dietro il loro apparecchio a eseguire le mansioni assegnate. Bene attente invece devono essere soprattutto alla pioggia e a non toccare i tasti metallici per evitare le scariche elettriche.

Bloccate tra turni sfiancanti e straordinari pressanti, sono fisse alla loro postazione e trascorrono la loro gioventù consumante dal battere dei tasti per un sogno di matrimonio o per aiutare economicamente la famiglia. Tra voglia di indipendenza e spesso un presente avvilente, sono così stanche anche di uscire per andare a ballare, a divertirsi e vivere. 

Otto e cinquantacinque. Addosso a tutte quelle fanciulle era piombata la grande stanchezza finale, l’aridità di sette ore passate in ufficio a compiere un lavoro scarso e integrato. Stavano immote, senza aver più neanche la forza di levarsi su per andarsene: avevano intensamente desiderata quell’ora delle nove, si erano consumate in quel desiderio e adesso, esaurite, senza vibrazioni nervose, stracche morte dall’aspettazione, dall’ozio e dalle chiacchiere vane, non desiderano più niente. (p. 58)   

Una fotografia puntuale e precisa traspare dalle pagine, che mettono in scena spaccati di vite vissute tra solidarietà e difficoltà, tra attese e rassegnazione. Pochi sono i momenti di felicità, tra qualche pettegolezzo e leggera vanità le protagoniste trascorrono i loro giorni, tra speranza e riscatto, spesso disilluse e scoraggiate. 

Con una paga più bassa rispetto a quella dei loro colleghi maschi, il lavoro prende il sopravvento sui progetti e sulle ambizioni di queste donne che, tra l’indifferenza generale, producono incessantemente dispacci e telegrammi e sbrigano improrogabile corrispondenza urgente. 

La conversazione sulla linea, salvo affari urgenti di ufficio, era severamente proibita. Si era indulgenti pei ritardi, per gli errori, per la incapacità; per la conversazione col corrispondente, non mai. Chi parlava e veniva sorpresa sul fatto era punita prima con l’ammonizione, poi con la censura, una pena gravissima; al corrispondente, si faceva una lettera risentita dalla Direzione, per avvisarlo che non ci ricadesse mai più. (pp. 41-42)      

Nel testo, in fondo, si trova la bella intervista di Ugo Ojetti a Serao, poi pubblicata nel 1899 nel volume Alla scoperta dei letterati. Nel rispondere alle domande la scrittrice sostiene che non possa esistere “il romanzo italiano” per via di ragioni sia legate alla lingua che ai diversi contesti sociali, culturali e regionali, l’incontro poi si conclude con le grida festose dei bimbi che erano nella stanza accanto, intenti a illuminare il presepe: “E andammo a vedere. I quattro fanciulli lindi e bianchi saltavano di gioia avanti a un grande presepe popolato di pastori e di angeli e illuminato da tante candele rosse, bianche e turchine, e a volta a volta lo mostravano estasiati alla mamma o a me.” (p. 89).  


Silvia Papa