Un
occidente prigioniero
di Milan
Kundera
premesse di
Jacques Rupnik e Pierre Nora
traduzione
di Giorgio Pinotti
Adelphi,
2022
pp. 85
€ 12 (cartaceo)
Che cos’è l’Europa centrale? L’incerta zona di piccole nazioni strette fra Germania e Russia. (p. 62)
Nell’immaginario collettivo, il periodo storico che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino vede il mondo suddiviso in due grandi blocchi contrapposti. Da un lato abbiamo gli Stati Uniti, a rappresentare l’Occidente che noi tutti conosciamo: quello del capitalismo, sì, ma anche della democrazia e della libertà di opinione. Gli USA rappresentano quelle nazioni e quei popoli che hanno scelto i diritti dell’uomo e la cultura dei lumi ereditata dalla Rivoluzione francese. Dall’altro lato c’è l’Unione sovietica, che simboleggia tutto ciò che non conosciamo, che è altro dalla nostra cultura: il comunismo inteso come regime, sì, ma anche l’uguaglianza e un modo diverso di vivere la comunità.
In questo contesto, i Paesi dell’est europeo
vengono quasi sempre associati al blocco sovietico e diventano una zona grigia quasi
senza identità definita Stati satelliti. Parliamo di Paesi come la Polonia, l’Ungheria,
l’Ucraina, la ex Cecoslovacchia. Facile è dimenticare che questi Paesi hanno
una lunga storia. Forse lo dimentichiamo perché, in un modo o nell’altro, hanno
spesso fatto parte di una qualche altra identità sovranazionale. È un errore collettivo, qualcosa che
si innesta in noi dalla cultura popolare, forse perché, ricalcando le parole di
Karel Havlíček ripotate da Kundera, «ai russi piace definire slavo tutto ciò
che è russo, in modo da poter poi definire russo tutto ciò che è slavo» (p.
56). E quindi, schiacciati fra le potenze europee (il Sacro romano impero prima
e gli imperi asburgico e austro-ungarico poi) e l'ingombrante vicino russo, queste nazioni hanno sempre vissuto all’ombra di qualcuno pur avendo una
storia millenaria da raccontare.
Gli anni Sessanta e Settanta sono stati
per i Paesi dell’est Europa un periodo turbolento e contrassegnato dalle
rivolte civili e culturali. Il tentativo di
ribellarsi all’appiattimento sovietico è stato spesso soffocato nel sangue,
come dimostrano i fatti della Primavera di Praga narrati anche nel capolavoro di Milan Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere. Se non basta quanto riportato nel suo romanzo del 1984, leggendo questo libriccino edito da poco per Adelphi riusciamo a percepire il grido di aiuto
disperato che gli uomini del tempo hanno lanciato verso l’occidente.
Nel discorso del 1983 riportato in questo libretto, infatti, l’autore si
rivolge all’Europa e la accusa di aver dimenticato il passato comune. La accusa
di aver dimenticato che i Paesi dell’Europa centrale, la quale «non è uno
Stato, ma una cultura o un destino» (p. 58), sono stati il crogiolo della nostra storia, luogo identitario per molti artisti e pensatori europei. Avendo
lasciato queste nazioni in mano alla Russia, una cultura altra rispetto a
quella giudaico-cristiana che accomuna tutti noi, l’Europa ha di fatto
rinnegato la propria identità. E poiché «l’identità di un popolo o di una civiltà
si riflette e si riassume nell’insieme delle creazioni spirituali che
solitamente definiamo “cultura”» (p. 47), le conseguenze sono immediate: quel
che è successo è che noi occidentali abbiamo abdicato la nostra, l’abbiamo
svenduta da un lato agli Stati uniti e dall’altro all’Unione sovietica.
La colpa, dunque, è nostra. Kundera si
scaglia non tanto contro i russi – che da sempre sono stati imperialisti –
quanto contro noi occidentali che non abbiamo fatto altro che guardare mentre
un pezzo di storia ci veniva strappato via. Le parole di Kundera sono cariche di
emotività, che emerge da ogni riga di questo trattatello. C’è una bellezza nel suo
accoramento che quasi fa dimenticare la tragedia di cui sta parlando e che – è innegabile
dirlo – non è lontana da quanto sta accadendo in questi giorni in Ucraina.
David Valentini