di Vanessa Nakate
Feltrinelli, 2022
pp. 256
€ 11,99 (ebook)
Recentemente mi sono appassionato a questa nuova tendenza della saggistica di attualità che chiamerei, senza troppi giri di parole e senza nessuna connotazione particolare, testimoniale. È come se si senta il bisogno di una parola e di una narrazione che affondino in una realtà che l’autore (chiunque metta il proprio nome sulla copertina) abbia vissuto concretamente e che noi lettori, invece, percepiamo di sfuggita, senza appigli concreti. Non so se sia perché siamo fermi nelle nostre bolle confezionate o perché non riusciamo ad avere un giudizio obiettivo che riesca a uscire dal circuito delle polarizzazioni indotte; non so nemmeno se questa necessità cronachistica-testimoniale sia un grido d’allarme per qualcosa che si sta perdendo per sempre o se, invece, non sia altro che una tendenza estetica di un periodo ben delimitato. Non si contano le testimonianze scritte in prima persona, le narrazioni individuali di lotte generali e le storie di singole vite che possano fungere da exemplum. È come se si avesse inconsciamente il bisogno di una letteratura agiografica, che ci possa pungolare, spingere a riflettere e magari addirittura invogliare ad alzarci dal letto confortevole e ad agire in un qualche modo. Ogni campo disciplinare che ha attinenza con problemi e con discussioni attuali sembra tendere verso questa forma a metà tra il saggio divulgativo e il memoir.
Aprite gli occhi. La mia lotta per dare una voce alla crisi del clima, uscito il 12 maggio 2022 per la Serie Bianca di #Feltrinelli, rientra pienamente in questo orientamento. E lo fa con gusto, senza cadere in eccessivi patetismi né nella monotonia dell’epigonismo, conservando un’incisività non comune. Ciò che risulta essere fondamentale, in questo tipo di scrittura, allora è la figura autoriale, è la storia di una passione, di una vita. Non è un saggio sull'ambiente o un documento con pretesa di obiettività, questo è una testimonianza, viscerale, forte proprio perché sentita come necessaria in quanto subita, come si vede da questo piccolo stralcio:
È questo il mio mondo: un mondo in cui la temperatura terrestre è già aumentata di 1,2° Celsius rispetto ai livelli di epoca preindustriale. Un pianeta più caldo di due gradi centigradi è una condanna a morte per paesi come l’Uganda. Eppure, già mentre leggete questo libro, siamo sulla buona strada perché le temperature salgano molto, molto di più di due gradi. Ciò significa che ci saranno tanti altri milioni di sfollati e che eventi climatici estremi porteranno sistemi sanitari ed economie al punto di rottura (p. 9)
Forse in questo, il tema principale, ma parlerei addirittura della compresenza di due temi fondamentali, ha aiutato. Forse la struttura chiara ed episodica del libro, che comunque non abbandona mai la linearità narrativa rendendo tutto non solo scorrevole ma anche apprezzabile, e la buona traduzione di Chiara Rizzo, che ha reso in maniera intelligente le sfumature, i punti complessi e le imperiosità della scrittura originale, hanno aiutato. Il tema centrale è uno di quelli che prima del Covid risultava trainante: la certa apocalisse climatica. Sono iniziati studi letterari a riguardo, sono state avanzate proposte, prospettive, si sono indetti convegni e si è iniziato a creare un ampio circolo di discussione. Ci sono state molte parole, molti confronti, in questi ultimi anni, a riguardo, ma per lo più accompagnati da pochi fatti concreti. E adesso il cambiamento climatico è stato relegato, prima dalla pandemia e poi dalla guerra in Ucraina, alla periferia della bolla comunicativa, in un luogo astratto in cui il fenomeno dell’echo chambers sembra non funzionare più. Come può un problema percepito come lontano e visto come non impellente risultare più significativo, nel mondo odierno della comunicazione, di una pandemia o di una guerra scoppiata nel giardino di casa? Questo tema è passato in breve da essere il trendig topic, dall’essere cioè il tema che assicura il massimo di visualizzazioni per un sito o un giornale in formato digitale (ma anche nei vecchi mezzi di comunicazione come la televisione e la carta stampata aveva il suo grande impatto) a essere un semplice argomento di discussione di qualche fanatico, magari anche solitario. (Ed è indicativo il fatto che io stia scrivendo questa recensione qualche giorno dopo l’Overshoot day italiano del 15 maggio.) Ma si sa, un pericolo vicino ma che produce rumori che possono essere confusi per altro è sbalzato indietro da un pericolo imminente, vicino e con dei fragori inequivocabili. E questo libro ci spinge a riflettere con il suo valore esemplare e concreto, con la sua testimonianza
Eppure, Aprite gli occhi non è solo un saggio testimoniale sull’Antropocene, su come stiamo distruggendo la nostra terra, la nostra casa, non è solo la narrazione di una lotta per la sensibilizzazione verso il problema climatico. Aprite gli occhi mira a far riflettere il lettore anche sul problema razziale, su quello di genere e sui rapporti di forza tra primo, secondo e terzo mondo (per usare una terminologia ormai impolverata). Vanessa Nakate non è Greta Thumberg; Vanessa Nakate non è un’attivista americana, no, lei è una giovane ragazza ugandese che con coraggio è diventata un’attivista africana per il clima. E anche questo argomento entra con forza nell’attivismo di Vanessa, e anche questo è sentito come impellente e viscerale, e lo è proprio perché subito sulla pelle, come si vede da queste poche righe:
Mentre aspettavamo che iniziasse, mi guardai attorno e notai che ero una dei relativamente pochi africani o persone di colore in sala. Provai anche l’esperienza bizzarra di sentirmi chiedere per due volte di lasciare la sedia perché il posto era riservato a qualcun altro, benché le sedie non avessero un segnaposto che lo indicava e benché fossi l’unica di quell’area a cui era stato chiesto di spostarsi (p. 56)
A questo riguardo un appunto va fatto sul titolo italiano, che lascia alla copertina, a quell’immagine fortemente connotata, l’incombenza di affrontare questo secondo fuoco del libro, che nell’originale è evidente anche dalle parole (il titolo inglese è A bigger picture. My Fight to Bring a New African Voice to the Climate Crisis). Non so se sia una scelta condivisa o meno, non so nemmeno se sia una scelta fortunata, né se sia così importante, considerando che questo tema appare all’interno dell’opera. Ma qui si aprirebbe un argomento molto complesso e dibattuto sull’appartenenza o meno del titolo all’opera, e questa non mi pare la sede appropriata. E poi, non è la caratteristica principale della traduzione tradire in parte ciò che si traduce?
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