di Elizabeth Strout
Einaudi, maggio 2022
Traduzione di Susanna Basso
pp. 184
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Oh Elizabeth! Ho un rapporto viscerale con la scrittura di Elizabeth Strout, autrice premio Pulitzer – nel 2008, con la raccolta di racconti Olive Kitteridge – , scrittrice piena di grazia. Tra le sue pagine ho trovato sempre tanta vita, empatia, speranza, lampi di luce e bellezza abbaglianti, anche quando lo sguardo indaga i traumi, le miserie quotidiane, le fratture, le fragilità, le solitudini. Nel corso di un meraviglioso incontro con l’autrice alcuni anni fa ospiti di Einaudi, Strout ha detto sulla propria scrittura una cosa molto semplice ma fondamentale: «mi interessano le persone, non la storia». Ecco, credo che il senso della sua scrittura, dei romanzi e dei racconti, sia racchiuso tutto lì, nelle persone – perché sono così vive che è difficile chiamarle personaggi – nei legami, nelle profondità inconoscibili, nella fragilità, nella gentilezza di un gesto semplice.
Molte delle cose e della scrittura di Strout si ritrovano in questo ultimo romanzo, il terzo dedicato a Lucy Barton – protagonista anche di Mi chiamo Lucy Barton (qui la recensione di Gloria Ghioni e qui quella di Debora Lambruschini) e il meraviglioso Tutto è possibile, tutti pubblicati da Einaudi nell’ottima traduzione di Susanna Basso – ma nonostante certi passaggi che squarciano la pagina credo che stavolta qualcosa sia venuto meno nella narrazione. Strout ci ha abituati a un livello tale di perfezione che ogni minimo slittamento pesa moltissimo. Difetti marginali in qualsiasi altra narrazione, che con Strout faccio fatica a ignorare, perché tanto negli anni la sua scrittura mi ha stregata, facendomi sempre fare pace con la letteratura, talvolta con la vita stessa. Capite bene quanto queste mie considerazioni su Oh William siano dettate da quello che dicevo essere un rapporto viscerale con la scrittura di Strout e come, quindi, certe ridondanze e incertezze siano qualcosa che con il dovuto distacco dalla lettura facilmente si potrebbero perdonare. Lo farò anch’io, a distanza di qualche tempo e quando anche questa storia narrata da Lucy Barton si sedimenterà, forse in buona parte l’ho già fatto.
Ritrovare Lucy è tornare immediatamente ai due romanzi precedenti, a quella voce intima, diretta, che si dona al lettore quasi fosse un dialogo privato tra lei e noi; una voce che anche in questo romanzo torna pienamente riconoscibile, con tutte le sue omissioni, le storie che l’hanno preceduto, le fragilità, l’urgenza di raccontare per riuscire a comprendere. Ritroviamo Lucy Barton sessantenne, una carriera letteraria ben consolidata – perfino in una sperduta biblioteca di provincia la riconoscono – , la vita a New York; due figlie adulte, la perdita dell’amatissimo secondo marito David, da cui è trascorso un anno; e un buon rapporto con il primo marito, quello del titolo, che per tutta la narrazione susciterà in Lucy un susseguirsi di Oh William!, di volta in volta caricato di significato diverso. È di lui, ci avverte subito, che vuole raccontare, del loro matrimonio finito dopo quasi vent’anni e molta vita, della scoperta da parte di William di un segreto di famiglia custodito per tutti quegli anni e che solo con accanto Lucy sembra capace di affrontare.
È davvero di questo che Lucy Barton vuole raccontarci? Di un prigioniero di guerra, un tedesco, che ai lavori forzati nella fattoria di un coltivatore di patate del Maine si innamora della giovane moglie del fattore e insieme si costruiscono una vita? Della scoperta di che cosa quella scelta abbia comportato, di un segreto che l’amatissima madre non aveva mai svelato?
O, forse, è soprattutto il mistero che ognuno di noi rappresenta ciò intorno a cui gravita il racconto di Lucy Barton? Dell’intimità e delle distanze dalle persone che amiamo, del passato da cui pare impossibile prendere davvero le distanze, del sentirsi inadeguati e in bilico tra l’essere invisibili e così fortemente riconoscibili, delle crepe e delle solitudini di un matrimonio, della perdita e del lutto, del tempo che passa, delle differenze di classe – il grande tabù americano.
Di fronte a riflessioni di questo tipo, alla profondità dello sguardo di Lucy-Strout e alla totale adesione tra storia e scrittura, ecco che si compie ancora una volta il miracolo della scrittura.
Dei diversi nodi cruciali di questa narrazione poc’anzi indicati, ce n’è uno particolarmente interessante a mio avviso e verso il quale ci sono ancora molte resistenze nella sua trattazione non solo letteraria ma proprio nella discussione, svincolata da retorica e stereotipi, ed è il discorso di classe: la società statunitense è – anche se viene difficile pensare a una società che davvero del tutto non lo sia – una realtà multisociale, in cui messi da parte i discorsi motivazionali è difficile pensare su ampia scala che possa esistere davvero mobilità sociale o, soprattutto, che questa non comporti molto dolore e sacrifici, in continuo contrasto fra ciò da cui si è partiti, le proprie origini, e il posto che si è conquistato.
Va detto però che non ho mai afferrato i meccanismi del sistema di classi americano, perché io arrivavo dal fondo assoluto e quello è un marchio che non ti levi più. Voglio dire che non sono mai riuscita a superare le mie origini, la miseria, credo sia questo. (p. 31)
Strout con la sua Lucy Barton è stata tra i primi e più efficaci narratori a parlare – pur senza usare la definizione – della “white trash”, i bianchi poveri, quella stessa classe sociale raccontata per esempio attraverso un codice differente da Dorothy Allison nella raccolta di racconti Trash pubblicata da Minimum Fax lo scorso anno.
Le origini di Lucy Barton, la terribile povertà e l’ancor più devastante isolamento – sociale, culturale – in cui sono cresciuti lei e i suoi fratelli, ne costituiscono l’identità e continuano a essere motivo di riflessione e disagio anche in questa nuova storia. Tornano come nei due romanzi precedenti i fantasmi del passato, le violenze subite, la mancanza di affetto e la scelta, poi, di cogliere l’opportunità di studio che le è stata data, per prendere le distanze da quello che era. Sappiamo, dalle narrazioni precedenti, quanto certi fantasmi dal passato non abbiano mai smesso di tormentarla, sappiamo della fatica di costruirsi un’identità come scrittrice, di essere amata, perfino. Oggi che ritroviamo Lucy a sessantatré anni, con tutta la vita che c’è stata in mezzo, bastano poche righe del suo racconto, alcuni spazi vuoti e dolori su cui sorvola, a comprendere che la distanza messa tra la bambina cresciuta in mezzo al nulla e nella violenza – dentro casa, ma anche del mondo che li disprezza e non ne fa segreto – è poca cosa di fronte a certe insicurezze che colgono anche una scrittrice affermata, una donna adulta che ha in qualche modo sistemato i rapporti con quel che è rimasto della famiglia d’origine.
Per tutto il libro Lucy oscilla tra il sentirsi invisibile e la mancanza di un codice culturale e di comportamenti che pare invece essere intrinseco a tutti gli altri, che al contrario la rende così scomodamente riconoscibile:
Sono una che si sente invisibile – l’ho già detto – eppure in quella circostanza avevo la stranissima sensazione di essere contemporaneamente invisibile e dotata di un faretto sopra la testa il cui messaggio era: Questa ragazza non sa niente di niente. (p. 67)
Nel ripercorrere gli anni in cui è stata sposata con William, mentre lo accompagna alla ricerca lui stesso della verità sulle proprie origini, ciò che appare è l’affresco di un matrimonio, dell’equilibrio fragile tra la profonda intimità condivisa e certi abissi imperscrutabili fra loro, certe distanze e misteri del carattere dell’altro che hanno contribuito a far finire il loro matrimonio.
E sembrava che non ci fosse niente da fare. E niente infatti si fece. Perché io non riuscivo a parlarne, e William diventò meno felice e si andava chiudendo in tanti piccoli modi, accadde davanti ai miei occhi. Con questa consapevolezza continuammo a vivere le nostre vite. (p. 43)
La solitudine, uno spettro che attraversa, in forme di volta in volta diverse, tutte le narrazioni di Elizabeth Strout, la salvezza delle connessioni umane, in modi che spesso non sono quelli che si erano immaginati, ma che portano conforto, perché in fondo, la verità più triste è che «la gente si sente sola» e tutti i nostri sforzi sono per combattere quella solitudine. Per salvarci.
Ma forse la cosa più bella del personaggio letterario creato da Elizabeth Strout è la sua umanità: Lucy Barton è – e sarà sempre – una donna che non ha trovato tutte le risposte, che prima di tutto fatica a comprendere se stessa, il vero grande mistero di ognuno di noi. E allora le battute finali di questo romanzo illuminano come non mai la narrazione:
E poi ho pensato, Oh William! Ma quando penso Oh William!, non voglio dire anche Oh Lucy!? Non voglio dire Oh Tutti Quanti, Oh Ciascun Individuo di questo vasto mondo, visto che non ne conosciamo nessuno, a partire dai noi stessi? Tranne forse un pochino, un minimo sí. Però siamo tutti misteriose costellazioni di miti. Siamo tutti un mistero, ecco che cosa voglio dire. Potrebbe essere l’unica cosa al mondo che so per certo. (finale, p. 177)
Siamo tutti un mistero, Lucy, grazie per avercelo ricordato. Forse saremo un poco più indulgenti adesso con noi stessi e con gli altri.