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«Un figlio è la memoria della vita»: l’emarginazione, la solitudine e la povertà di una madre e di una figlia in “Génie la matta” di Inès Cagnati

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Génie la matta
di Inès Cagnati
Adelphi, 2022

Traduzione di Ena Marchi

pp. 184 
€ 18 (cartaceo)
€9,99 (ebook)

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[…] perché mai niente ti avverte che stai vivendo un giorno particolare, un inizio e una fine, nemmeno se è l’inizio di qualcosa di bello, perché certe cose sembrano normali o belle e poi dopo ti accorgi che diventano tremende (p. 139).

Génie la matta di Inès Cagnati è uno di quei romanzi che difficilmente si potrà dimenticare per la trama, le protagoniste e lo stile che ti colpisce come un fulmine tanto è potente e figurativo. Ho letto questo romanzo per la curiosità di capire come l’autrice aveva sviscerato e approfondito il rapporto tra madre e figlia, perché, lo sappiamo bene, la letteratura è colma di questo genere di storie, raccontate da diversi punti di vista e di tutti generi: da rapporti felici e idilliaci a quelli complicati e litigiosi.

Ecco, non mi aspettavo di essere travolta da una storia triste e lancinante, tanto da fare male.

Génie la matta è una storia di miseria, solitudine, dolore, coraggio, di tanti pregiudizi, ma anche di tanto amore. È la storia di due donne, di due vittime e di due reiette. A raccontarci la vita di Eugénie è la figlia, Marie, la quale nutre un amore incondizionato per la madre. Una madre piegata dagli eventi e dai dolori di una vita: Eugénie, proveniente da una ricca famiglia del luogo, è emarginata e diseredata, quando subita una violenza da un compaesano, rimane incinta.

La “disgrazia” (p.70), come la definiva la nonna di Marie, le comporterà l’emarginazione, non solo dal resto della famiglia, ma anche da tutto il paese. Génie, allora, dopo il parto, va a vivere in una fatiscente casa ai margini del villaggio, insieme alla sua bambina. Da questo momento, si rifugerà in logorante silenzio, rotto solo da alcune ripetitive frasi e sarà per questo, e per l’ “incomprensibile” scelta di tenere la bambina, che da tutti sarà conosciuta come Génie la Matta:

Se dovevano parlare con lei, dicevano:
«Génie la matta»
Mai
«Eugénie»
Né:
«Signora»
Sempre:
«Génie la matta»

(p. 12)

Trascorrerà la sua esistenza dedicandosi esclusivamente al lavoro: tutti i giorni, dalla mattina alla sera, Genie andrà nei campi e nelle fattorie dei suoi compaesani che non si faranno problemi a sfruttarla. Marie crescerà, studierà, amando in modo viscerale la madre che, nonostante la sua freddezza, cercherà di non farle mai mancare niente. Incontrerà anche un giovane aviatore, Pierre, del quale s’innamorerà. Madre e figlia sembrano, però, essere legate da un comune destino: così come la madre, anche Marie subirà una violenza sessuale. 

Abbandonate a loro stesse, dovranno fare i conti con lo stesso dolore e fronteggiare fatti che sfuggono al loro controllo, come in un eterno replay della vita di Genie, anche quella di Marie sarà la stessa. E così non può esserci né gioia, né speranza né tantomeno riscatto nelle loro esistenze.

E poi succedono le cose, sempre le stesse, e da quelle non ti potevi difendere, in tutte quelle sere perdute potevi solo sperare di aver la forza di sopportarle (p. 102).

Le due non vivono ma sopravvivono. Non è una sopravvivenza solo economica, ma anche affettiva; la stessa Marie è, infatti, costretta a elemosinare l’amore di una madre che si limita, ormai incatenata al suo dolore, a rivolgerle poche, anzi pochissime frasi, e, infine, anche socialmente perché, pagina dopo pagina, e giorno dopo giorno, sprofondano sempre più verso una voragine di solitudine, nonostante Marie provi ad avere qualche amico, come la dolcissima “vaccarella” Rose (p. 124)  o l’anatroccolo Benuit.

Un continuo movimento tra vicinanza e lontananza: vicinanza di Marie alla madre e lontananza di Génie verso la figlia. Un continuo rincorrere da parte di Marie la madre e un continuo fuggire di Géniè che la tiene a distanza e, infatti, le incontriamo così all’inizio del romanzo: Génie che cammina veloce per il paese e Marie che la rincorre, quasi in modo ossessivo. È un rapporto di silenzi e di lacrime sul cuscino, che sembra non abbia tempo se non quello naturale delle stagioni, legate ai lavori in campagna: dalla vendemmia al grano, all’uccisione dei maiali fino al granturco, è questo il ritmo delle vite di Génie e Marie che si adattano a essere travolte da questa spirale.

In autunno andavamo nelle fattorie a dare una mano a sfogliare il granturco. Uscivamo dopo cena. Percorrevamo i sentieri pieni di notte, lei davanti con una lanterna che la rendeva un’ombra smisurata, io dietro, incollata alla sua ombra, che correvo con tutte le mie forze per paura di perderla e di restare sola nella notte (p. 29).

Quello di Inès Cagnati è un romanzo che lacera il cuore, che ti fa provare una gran rabbia tanto che verrebbe quasi la voglia di entrare in quelle pagine e aiutare Genie e Marie, anche solo facendoli compagnia. Un romanzo complesso, doloroso e tragico che è suggellato da uno stile che non poteva essere diverso: essenziale e senza fronzoli, perché, alla fine, il dolore non ha bisogno di grandi parole o pretese. I capitoli brevi, alcuni brevissimi, sono come istantanee che catturano un’immagine, un ricordo o un’azione e questo basta a mostrarci e portarci dentro la storia. Non c’è bisogno di altro perché Ines Cagnati colpisce precisa e sicura le nostre corde con poche ma giuste parole.

Giada Marzocchi