Miracoli
di Anna Beecher
Atlantide, 2022
Traduzione di Clara Nubile
pp. 240
€ 24 (cartaceo)
È uno squarcio di luce e bellezza, Miracoli, il romanzo d’esordio di Anna Beecher, autrice e attrice di teatro. Una storia che ne contiene diverse altre al suo interno, struggente, piena di grazia. Anche nel dolore, di cui il romanzo è fortemente intriso, ma che si apre pure a squarci di assoluta bellezza. È una postura quella di Beecher affine a mio avviso a quella di Elizabeth Strout, una capacità di osservare il mondo e le persone da un’angolazione peculiare, cogliendo il dramma e le meschinità quotidiane ma in grado di far entrare la luce, la meraviglia, quel senso di possibilità che squarcia la pagina. Atlantide edizioni – casa editrice sempre attenta a scovare gioielli letterari di particolare fascino – con Miracoli consegna al lettore un romanzo intimo e struggente, in cui piani temporali diversi si intrecciano a comporre istantanee di una famiglia prima ancora che diventi tale: ed è in quell’intreccio di fili, dei pezzi di ognuno di loro, che è racchiuso tutto il senso, il concetto dell’essere parte di un insieme e, soprattutto, dell’impronta che lasciamo nelle persone che amiamo, anche quando non esistiamo più.
Non la storia tutta di una famiglia, non in senso canonico almeno, ma una narrazione più frammentata, istantanee si diceva dense di significato, su due piani temporali distinti ma intrecciati: Emily e l’amato fratello Joe, l’anno crudele della sua malattia terminale, nella Londra contemporanea; Edward, alla fine degli anni Trenta, molto prima di diventare il loro nonno. Emily che usa quel tu, per rivolgersi a Joe, anche quando lui è ormai distante e non può sentirla. Edward, di cui osserviamo i gesti timidi, l’eco del silenzio della casa in cui è cresciuto, le distanze sempre maggiori, l’omosessualità negata. Fili che si intrecciano a Eleonor, scappata da un marito violento, ma che ancora a distanza di tempo «si gira di colpo e si accorge che non c’è nessuno alle sue spalle», la famiglia che costruisce con Edward, nonostante tutto. Ruth e il marito, di fronte alla malattia terminale del figlio, un dolore che non ha nome. Proprio Ruth, che ha sempre sorpreso il padre per il suo istinto alla felicità:
[…] lei riusciva a entrare in una maniera così pulita nella felicità, come se sentisse di meritarla. O forse, più di questo, credeva che la felicità non era una cosa da meritarsi o roba simile. Era un luogo: potevi aprire il cancello e passeggiarci dentro. (158)
E poi, ancora, Mary, la madre di Edward, rimasta sola quando era solo una ragazza, abituata a tenere tutto e tutti a distanza. I silenzi, l’amore privo di gesti affettuosi, scavano crepe nella vita della sua famiglia:
Edward pensava che la sua famiglia vivesse come sigillata in cima alla collina, e fu strano scoprire che altra gente parlava di loro. I parenti più stretti della madre erano stati uccisi, uno dopo l’altro, dalla tubercolosi nei primi, piovosi mesi del 1930, e lei all’improvviso si era ritrovata sola alla fattoria. Aveva ventidue anni. In seguito, c’era stato un periodo in cui la gente aveva paura di avvicinarsi. O forse era lei che aveva paura della gente. (p. 59)
Sono pagine di dolore, silenzi, lacrime, ma anche luminose e inaspettatamente piene di vita, rette da una lingua che alterna slanci lirici a concretezza brutale, abilmente tradotte da Clara Nubile.
Ci sono molte chiavi di lettura attraverso cui entrare in questa storia e come sempre ogni lettore troverà la propria, quella capace di toccare sensibilità personali e catturare l’attenzione.
È, prima di tutto, una storia d’amore: di un legame assoluto tra fratello e sorella, che non si esaurisce di fronte alla morte. Emily, di qualche anno più piccola di Joe, quel bambino nato prematuro e adesso di nuovo così fragile. «Joe, in quel momento tu sei diventato il mondo intero per me», dice Emily ricordando i primi anni insieme ed è inconcepibile per lei immaginare un futuro senza Joe, la distanza sempre più grande fra loro, superare in anni l’età del fratello, continuare a vivere. Ecco, qui, è racchiuso il dolore più grande e irrazionale, invecchiare più di qualcuno che abbiamo amato, continuare a vivere senza di lui. Ed è in quel dolore così profondo, che entra, abbagliante, la luce:
E poi c’è la felicità. A volte mi fermo e metto piano una mano sull’altra o mi porto molto lievemente la punta delle dita alla gola, e provo una sensazione fluttuante. Sorrido. Non sapevo, fino a quando non è arrivato un segmento felice di futuro, che la felicità mi aspettava intatta. Ho fatto solo un tratto di strada nel futuro, e così tanto mi resta da vedere. (p. 223)
Anche nei giorni della malattia, in quel nuovo quotidiano di cure e medicinali sempre più forti, ci sono lampi di bellezza, perché se forse il miracolo più grande non è stato concesso bisognerà accontentarsi di tanti, inestimabili piccoli miracoli lungo la strada. I pezzi di vita condivisa, l’ironia con cui affrontare il dolore, il significato di ogni giorno e momento insieme, affinché niente vada perduto. Affinché nessuno, sia perduto. Joe, che non vedrà mai davvero sviluppato il suo potenziale di violinista, che piange per una vita rimasta incompiuta e per l’amore che non ha avuto il tempo di conoscere, ma il suo passaggio su questa terra ancorato per sempre dentro tutti quelli che gli sono stati vicino, che ne condividono la memoria, il sangue.
Quei fili, che legano ognuno di loro, vanno anche da un capo all’altro del tempo: Edward e Joe, ragazzi in due epoche tanto diverse, l’omosessualità repressa l’uno, accolta come naturale parte di sé dall’altro. E forse Edward nonostante tutto è il personaggio più tragico di questa storia, punito dal tempo e dal luogo in cui è cresciuto, isolato dal rumore assordante del silenzio e dell’incomprensione famigliare, provato poi dalle perdite che si sommano una sull’altra.
Edward aveva attraversato la vita in modo così esitante, sempre col dubbio che qualcuno gli avrebbe chiesto che cosa stava nascondendo, ma nessuno glielo chiese mai. L’aveva nascosto troppo bene. Aveva preso una parte di sé e l’aveva messa via, come se fosse morta. Come gli sembrava arbitrario, adesso. Casuale, che avesse addirittura vissuto. (p. 213)
L’ha messa via quella parte di sé, si è costruito la famiglia che ci si aspettava. Accanto a Eleonor ma mai davvero vicini. Quanti segreti ognuno ha custodito.
«A volte il mondo è così bello, per caso»: anche in un giorno qualunque, anche nel dolore. E allora facciamo caso, lasciamoci commuovere da una storia così intensa e struggente e, soprattutto, dai tanti, piccoli miracoli del quotidiano.