#CriticARTe - Ritorno a Fotografia Europea in una "invincibile estate". Prima tappa: Chiostri di San Pietro




Fotografia Europea 2022
Un’invincibile estate

Reggio Emilia, 29 aprile – 12 giugno

Biglietto intero   18,00; ridotto 15,00/13,00.
 

Dopo alcuni anni di assenza, CriticaLetteraria torna a Fotografia Europea, festival diffuso ospitato da edifici storici, teatri e musei del centro storico di Reggio Emilia (qui le recensioni alle edizioni precedenti). È la prima volta che vengo sola, senza quindi i tempi dettati da terzi, e decido di prendermela comoda.
Un’invincibile estate (questo il tema dell’anno) si apre per me, ai Chiostri di San Pietro, all’insegna di mari e storie condivise. Nicola Lo Calzo racconta infatti la storia di San Benedetto il Moro, Binidittu, venerato a Palermo e simbolo di un processo di integrazione che affonda le sue radici nel passato ma allunga i rami verso il presente. Nelle sue immagini il Mediterraneo si fa davvero mare nostrum, mare di tutti, attraverso un percorso che svela progressivamente, ma sempre più chiaramente, il suo senso.
È però dalla seconda esposizione che riesco davvero a entrare nello spirito giusto, grazie alle suggestioni create da Hoda Afshar nella sua Speak the wind
Il vento infatti parla, il vento plasma, il vento possiede, domina, soggioga. Le persone prima di tutto, come si crede nelle isole dello stretto di Hormuz, di fronte all’Iran, ma anche i paesaggi, rendendoli plastici e alieni. Di queste credenze che corrono sotto pelle, come gli spiriti, non si può parlare manifestamente per paura di dar loro corpo. L’artista cerca allora di mostrarli attraverso le immagini, di coglierne l’anima oscura e misterica attraverso versi che risuonano di tempi lontani:
Una notte, mentre dormivo, è entrato nel mio corpo.
Il mio cuore batteva forte e le mie braccia e le mie gambe
tremavano. Non riuscivo a smettere di piangere.
Potevo sentirlo roteare dentro il mio corpo.
Gli allestimenti video delle prime due mostre fanno risuonare nei corridoi i ritmi di tamburi tribali, il rombo del vento e lo scrosciare dell’acqua, che si mescolano producendo effetti suggestivi per il visitatore ancora quasi solitario.
Subito dopo, in una stanza rettangolare e oscurata, in Fire on World le diapositive di Carmen Winant mostrano un mondo che va a fuoco, un mondo fatto di istantanee che si costituiscono in Storia, ma anche in storie sempre diverse, e allo stesso tempo riconoscibili, come se fossero sempre uguali, sempre ritornanti. La vita, la morte, la protesta, gli eventi segnanti di un’epoca, gli oggetti che li raccontano. Se i materiali non sono inediti, né creati dall’autrice, ma semplicemente collazionati, l’istanza creativa sta nella modalità della narrazione, nel modo in cui permette al visitatore di partecipare attivamente alla decifrazione del messaggio. Un procedimento quasi opposto seguirà invece, più avanti, Alexis Cordesse, che in uno spazio simile espone la sua Talashi (in arabo “frammentazione, erosione, scomparsa”). Anche qui troviamo immagini affastellate, che vogliono però testimoniare un’impossibilità, una mancanza. Le fotografie dispiegano la storia di esuli o rifugiati, che hanno dovuto lasciare tutto dietro di sé. Gli scatti raccontano di vite prima e dopo un esilio, vite ridotte a frammenti, che si cerca vanamente di ricostituire in un’unità. Senza alcuna retorica, l’autore ci parla dei più drammatici conflitti contemporanei, attraverso le conseguenze che ricadono sulle persone. Ce li racconta facendo risuonare nella penombra la sua stessa voce, spingendoci a interrogarci su cosa resta dell’esistenza di chi è stato travolto dalla guerra.
Di interruzioni e separazioni parla anche un’altra delle esibizioni dei Chiostri di San Pietro, che ci porta a chiederci quanto si possa davvero penetrare l’intimità di chi si ha accanto. Seiichi Furuya, in First trip to Bologna 1978. Last trip to Venice 1985, torna a raccontare il grande mistero della sua storia d’amore. La moglie Christine, da tempo depressa, si è infatti tolta la vita dopo quest’ultimo viaggio. Da quasi quarant’anni lui raccoglie indizi per comprendere il senso del suo gesto: “Con la sua morte, la donna ha dominato il mondo spirituale dell’uomo per il resto della sua vita”, scrive il curatore. Le due serie di fotografie, che partono separate ma finiscono per sovrapporsi visivamente, mostrano la donna nell’arco di poco meno di un decennio. Ne esplorano la femminilità, la vitalità, l’intensità dello sguardo, ma anche l’insondabilità. Non si sa quanta sia la suggestione nata dalla lettura del pannello introduttivo, ma certo tra le immagini aleggia l’impressione di qualcosa che non si può cogliere, afferrare. Un certo senso di malinconica ineluttabilità alimentato dalle atmosfere, brumose in entrambe le serie, delle due città che fanno da scenario alla narrazione. Fotografia Europea riesce ancora una volta, grazie all’accurata selezione operata dagli organizzatori, a destabilizzare e smuovere nel profondo i visitatori che accettino di implicarsi nei percorsi espositivi.
In prossimità del centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, mi risulta fonte di particolari risonanze Benny Profane di Ken Grant, che esplora la vita delle classi operaie inglesi, in particolare quelle che abitano un distretto portuale di Liverpool, poi travolto dalla storia (Bidston Moss, dove viene sviluppato il progetto a lungo termine di Grant, è infatti diventato una riserva naturale alla fine degli anni ‘90). Anche nelle fotografie di Grant si legge, come in alcune opere romanzesche di Pasolini, la commistione tra purezza e degrado, tra la povertà dilagante e l’idea di qualcosa di ancora incontaminato, e per questo tanto più fragile e da preservare, almeno attraverso l’immagine.
Scenografica, anche per la forma espositiva, è Temporarily censored home di Guanyu Xu: il percorso di riaffermazione di sé da parte dell’autore risulta quasi assertivo per il grande formato delle opere, che pendono in ampi pannelli direttamente dal soffitto a botte. La riappropriazione degli spazi domestici, al di là delle limitazioni imposte da un regime oppressivo e da una famiglia conservatrice, porta a una decisa affermazione identitaria, che chiede al soggetto di stravolgere le consuetudini e le aspettative altrui, di mostrarsi pienamente, come individuo a un tempo frammentato e ricomposto.
Ai due lati del corridoio, due rassegne molto diverse chiudono le mostre del primo piano dei Chiostri, dove senza avvedermene ho già trascorso due ore della mia giornata di visita. Da un lato, l’interessante progetto sulle fake news di Jonas Bendiksen, dall’altro, a inaugurare una riflessione sul femminile che pare filo portante di mostre esposizioni, la forza figurativa di Chloé Jafé, artista francese che è riuscita, dopo più di un anno di preparazione, a penetrare nel mondo della Yakuza giapponese, per incontrarne e raccontarne le donne. Le sue sono fotografie in bianco e nero, dalla grande intensità emotiva, modificate a mano con acrilici e pennelli.

Sussurrano storie nascoste, che vogliono oltrepassare le porte chiuse di un mondo inaccessibile, togliere il velo che le nasconde, mostrarne le protagoniste in una nudità che è letterale e metaforica, in relazione agli uomini a cui hanno dato la vita (“I give you my life” è il titolo della serie), ma anche per quello che sono in se stesse. I loro stessi corpi si fanno narrazione. Anche in questo caso, in dialogo con la mostra limitrofa di Xu, si impone un’idea di riconquista del sé veicolata dall’immagine.
Al piano di sotto, la monografica dedicata a Mary Ellen Mark (purtroppo visitabile solo fino al 5 giugno) vale da sola il biglietto d’ingresso. Collaboratrice di diverse testate, tra cui Life, l’artista ha indagato nei suoi reportage soprattutto la vita delle donne. In foto in bianco e nero dalla marcata forza espressiva, prostitute, pazze, drogate, donne del Ku Klux Clan e suore di Madre Teresa, piccole Barbie alle sfilate di moda e piccole zingare nei campi gitani si mescolano grazie a uno sguardo senza pregiudizi. Alcune delle serie sono già note, ma non meno d’impatto, come quella sui gemelli, o quella realizzata nel famigerato reparto 81 dell’Ospedale di Stato dell’Oregon, realizzata in concomitanza con le riprese di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Sconvolgente risulta poi la serie di scatti fatti a una famiglia di senzatetto, i Damm, seguita per diverso tempo e a più riprese. L’occhio attento della fotografa, nel ritrarre scene di povertà, è spesso concentrato sui bambini, sugli effetti del contesto sociale e famigliare sulla loro vita. E quello che emerge dall’indagine disarma per la violenza della rivelazione.
Le immagini sono accompagnate da pannelli che riportano commenti della stessa Mark, mostrandone lo spirito pragmatico, a tratti l’ironia, ma anche una sempre presente serietà di fondo, il profondo rispetto per il soggetto rappresentato. Ogni scatto rivela la sua dedizione a una causa.
Una delle protagoniste ricorrenti dei suoi scatti è Tiny, incontrata tredicenne fra un gruppo di ragazzini fuggiti di casa che, nella Seattle degli anni ’80, avevano creato una comunità a Pike Street e consumavano la propria adolescenza tra droga e prostituzione. Tiny viene accompagnata attraverso gli anni, e attraverso la lente dell’obiettivo se ne osservano la spontaneità e il cambiamento. Il percorso della mostra permette di avere un quadro complessivo dell’opera di una grande ritrattista dell’umano, indagatrice della poliedricità del femminile che viene puntualmente restituita. Esco dalla porta appagata e un po’ abbagliata. È giunta l’ora della pausa pranzo.


Carolina Pernigo