Il conforto della vastità
di Gretel Ehrlich
Black Coffee, 2022
Traduzione di Sara Reggiani
pp. 137
€ 16 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Dalla transitorietà dell’esistenza infine ho dedotto questo, che la mancanza è a suo modo una forma di completezza e che la disperazione si può tradurre in un’insaziabile fame di vita. (prefazione, p. 12)
Qualche giorno fa riflettevo a proposito di sperimentazioni letterarie: narrazioni particolari, certo, intese come desiderio di esplorare le possibilità formali e strutturali attraverso un testo narrativo; ma sono soprattutto le sperimentazioni che consistono in uno sguardo diverso da ciò che ci si aspetta a interessarmi maggiormente. E dialogando intorno a questo argomento ho pensato a quanto la narrativa nordamericana dell’ultimo periodo – almeno in termini di pubblicazione, vedremo poi perché – stia scardinando altri stereotipi letterari che sono stati per lungo tempo anche stereotipi mentali: l’Ovest, la frontiera, come luogo di dominio maschile, reale e narrativo. Negli ultimi anni mi pare si sia risvegliato un interesse verso narrazioni dell’Ovest che puntano allo sguardo femminile sugli spazi, sulla realtà, su alcuni degli aspetti più iconici della frontiera, nel tentativo di osservare da un punto di vista a lungo tempo rimasto marginale e porre rimedio anche a molti fraintendimenti che riguardano quegli spazi.
Un testo fondamentale per calarsi in questo filone letterario da un punto di vista particolare, è una pubblicazione recente di Black Coffee, Il conforto della vastità, di Gretel Ehrlich: si tratta di una raccolta di scritti composti fra il 1979 e il 1984, che tuttavia appaiono ancora straordinariamente attuali e interessanti.
Ehrlich arriva in Wyoming a ventinove anni, l'infanzia e l'adolescenza trascorse nella terra d'origine, in California, poi esperienze in città e studi nel settore cinematografico; approda nelle grandi pianure per realizzare un documentario. Un grave lutto la colpisce proprio all'inizio delle ricerche, ma è qui, entro quegli spazi sconfinati, che decide di restare per prendersi cura di sé, affrontare il dolore e capire cosa fare della propria vita. Si stabilisce in un ranch e si immerge pienamente nella vita del luogo.
Il nome Wyoming deriva da una parola indiana che significa “sulle grandi pianure”, ma le pianure in realtà sono valli, sconfinate, aride, milleseicento miglia di valli tese verso un orizzonte che ai bordi s’impenna in giganteschi massicci montuosi. Una vastità circoscritta che ispira un’idea di riparo. (p. 13)
Questi scritti nascono quindi come una sorta di diario inviato a un’amica originaria di quegli stessi luoghi, in seguito organizzato e pubblicato su varie riviste. Che cosa c’è in queste pagine di tanto affascinante? È una stratificazione di elementi, che rendono Il conforto della vastità uno dei testi più interessanti che mi sia capitato di leggere sull’Ovest, il mito della frontiera, tra stereotipi e tradizioni. Scritto con una lingua capace di intensi slanci lirici per poi poco dopo virare alla concreta brutalità del quotidiano – abilmente tradotta da Sara Reggiani – , questo testo scardina molti preconcetti, a partire dall’idea di un mondo prettamente maschile. Lo sguardo di Ehrlich ci da una prima importante visione da un punto di vista particolare, ma soprattutto appare evidente pagina dopo pagina come la vita del ranch e di ciò che vi gravita intorno possieda una componente femminile molto forte:
Uno dei miti legati all’Ovest è che sia un mondo «da maschi», ma le donne che ho conosciuto – discendenti da fuorilegge, pionieri mormoni, proprietari terrieri e di ranch – erano dure e capaci tanto quanto gli uomini erano teneri. (p. 50)
Tenerezza e ruvidità, sono due estremi che ben identificano la vita in Wyoming, due poli intorno a cui Ehrlich intreccia molte delle sue riflessioni. Gli spazi aperti, il territorio, l’elemento naturale, sono descritti magistralmente, ma il centro nevralgico della narrazione restano le persone, quegli uomini e quelle donne che Ehrlich incontra, con cui divide la fatica, i dubbi, la caparbietà di esistenze ogni giorno messe alla prova: dalla natura, dalle rivalità, dal progresso. L’isolamento, i silenzi, i gesti a sostituire molto spesso le parole, la brutalità e la tenerezza: per quanto intimo e viscerale il rapporto con questa terra, Ehrlich ne restituisce anche le ruvidità, i “lati oscuri”, nel tentativo di comporre una narrazione il più fedele possibile alla realtà, scegliendo quindi uno sguardo ampio sulle cose.
Il lato oscuro di questa immensità che ci circonda è una chiusura mentale che intrappola le persone nella loro stessa psiche. Gli uomini diventano eremiti; le donne impazziscono. La claustrofobia, erompe in suicidi, o si manifesta in pigli corrucciati e faide famigliari insolvibili. (p. 25)
«Essere duri significa essere fragili; la tenerezza è l’unica vera forza»: mi colpisce profondamente questa rivelazione, per la possibilità che apre a un’osservazione non stereotipata della Frontiera e delle persone che la popolano, che si scontra con una stratificazione di preconcetti, modelli poco aderenti alla realtà e che volendo o no hanno modellato il nostro immaginario dell’Ovest. Durezza e fragilità, forza e tenerezza, sono i due poli di una stessa anima. Ecco, quindi, un altro stereotipo da scardinare, forse il più difficile tanto è profondamente radicata l’immagine in ognuno di noi: il mito del cowboy, aspro, silenzioso, dalla pistola facile.
[…] la vulnerabilità è autentica, perché questi uomini lavorano con gli animali, non con le macchine; perché ogni giorno attraversano paesaggi di un fascino travolgente; perché sono legati a un luogo e a una routine che obbediscono a un gran numero di meravigliose variabili; perché le loro braccia sorreggono la morte quando un istante prima avevano aiutato la vita a nascere; perché vanno alle montagne come pellegrini solo per scoprire cosa fa felice una mandria di alci. Per tutte queste ragioni, la loro forza è anche fragilità; la loro asprezza, una rara forma di dolcezza. (p. 62)
In modo simile, Ehrlich riflette sul rodeo, «frutto e simbolo dello stile di vita di questa zona del Paese», una tradizione antica e travisata, che poco ha a che fare con la brutalità che gli si vorrebbe cucire addosso. È «il lato ribelle della vita nel ranch e incarna alcuni dei suoi valori costitutivi», è il rapporto strettissimo col cavallo, l’abilità nel domarlo e capirsi reciprocamente.
Ed è impossibile attraversare questi spazi ignorando che cosa abbia davvero significato l’arrivo dei coloni, perché la storia del West è una storia di sangue e violenza, di espropriazione. Mentre il dibattito sui risarcimenti ai nativi si fa oggi sempre più urgente, Ehrlich sceglie di osservare con rispetto le tradizioni, le cerimonie cui è ammessa, concentrando lo sguardo sul fascino esercitato dal trovarsi ammessa entro quella cerchia, sfiorando solo marginalmente le complessità del discorso. Non era il luogo, forse, non il tempo, ma traspare in ogni caso il profondo rispetto verso un popolo dalla storia antica e la sottile vergogna di chi appartiene al gruppo dei saccheggiatori.
Pagina dopo pagina, si insinua sempre più forte la sensazione di precarietà che pare avvolgere ogni cosa: quella transitorietà su cui riflette Ehrlich in apertura, la precarietà di un mondo scosso dal progresso – la corsa al petrolio, la devastazione, la crisi dei ranch – e dagli stereotipi; è qui che ha scelto di fermarsi per superare le difficoltà personali, per provare a trovare il proprio posto nel mondo, è qui che il mondo stesso le si rivela in tutta la sua varietà, nei poli opposti di cui ogni cosa è composta, nella complessità della vita e del cuore delle persone. E noi non possiamo fare a meno di seguirla in questo viaggio, affascinati dal luogo quanto dalle persone incontrate, su cui alla fine avremo uno sguardo del tutto nuovo. Grati, perché è questo che dovrebbe fare la letteratura.
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