L’accompagnatrice
di Nina Berberova
Feltrinelli, 2008
Traduzione di Leonella Prato Caruso
pp. 103
€ 6,50 (cartaceo)
Attualmente fuori-catalogo (presente solo tra l'usato)
Tante narrazioni
iniziano all’insegna di manoscritti, o “dilavati autografi”, trovati da
qualcuno e restituiti alla luce… questo è il caso anche de L’accompagnatrice, racconto lungo della scrittrice russa,
naturalizzata statunitense, Nina Berberova (di cui abbiamo già letto e
recensito Il giunco mormorante). A
raccontare in prima persona, in un testo non rivisto, forse a causa di una
morte prematura, è una donna che gli amici chiamano Sonečka, a un tempo figlia d’arte e figlia del peccato. Nella Russia del primo Novecento la madre,
insegnante di pianoforte, l’ha messa alla luce non più giovanissima e ancora
nubile. Crescendo, mentre sullo sfondo si consumano la prima guerra mondiale e
la rivoluzione, la ragazza ha iniziato a provare per lei una inscindibile commistione di pietà e vergogna. Forse
anche per questo il rapporto tra le due è viscerale, ma contraddittorio, non
veramente appagante (la figlia sente in qualche modo di deludere la madre, o di
rammentarle ciò a cui ha dovuto rinunciare). È quindi senza rimpianti che,
nell’inverno povero e desolato del 1919, Sonečka accetta di entrare a servizio,
come accompagnatrice al piano, della già celebre cantante Marija Nikolaevna
Travina. L’incontro con l’altra, con il lusso in cui vive, con l’appagata
serenità del suo benessere, è scioccante per la giovane, che si rende conto
immediatamente di trovarsi di fronte una persona totalmente dissimile da sé, e
probabilmente migliore. Nel ricordare il primo incontro, il continuo scivolare
nel presente ricorda che la differenza sostanziale tra le due non è mai venuta
meno:
Aveva dieci anni più di me, e, naturalmente, non lo nascondeva, perché è bella e io no. […] Lei si muove, parla e canta con grande sicurezza […]; sembra sprigionare una specie di calore, una scintilla – divina o diabolica –, non esita mai tra il sì e il no. Io mi sento, a volte, fasciata da una bruma d’incertezza, di indifferenza, di noia, nella quale mi dibatto come un insetto notturno si dibatte nella luce del sole, prima di accecarsi o paralizzarsi. (p. 24)
La lontananza tra i due modi di essere e
i due stili di vita ferisce nel profondo la narratrice, genera in lei
malessere, financo odio puro. Condannata a stare sempre sullo sfondo,
perennemente a disagio di fronte alla disinvoltura dell’altra, Sonečka è attratta e respinta, vuole compiacere e
distruggere. Non capisce perché ad alcuni sia dato tutto e ad altri niente (“Che cosa è la vita? E Dio? Dov’è Dio? Perché
non ci ha fatti tutti come lei?”, p. 30). La sua istanza è rivolta a una
maggiore giustizia sociale, ma ha un carattere di fondo intimo, fortemente
personale.
Ebbene che cosa pretendi? Che cosa pretendi di più dalla vita? Regolare i conti? Prenderti la rivincita? Come? E contro chi, poi? Devi tirare avanti buona buona, più cheta dell’acqua, più bassa dell’erba. In questa vita, i conti non si regolano; e l’altra, non esiste! (p. 25)
Anche con il procedere della relazione, professionale e in qualche misura
affettiva, tra le due donne, l’una sempre protagonista, l’altra inevitabilmente
comprimaria, l’ambivalenza non viene
meno, ed è tutta dalla parte di Sonečka. Marija Nikolaevna le è infatti
superiore anche in questo: nell’integrità dei pensieri, degli umori, nella
generosità e nell’accoglienza. L’altra la osserva, in cerca di qualcosa con cui
comprometterla, o in virtù del quale consolidare un legame esclusivo che sempre
sembra sfuggire. Anche il legame della donna con il marito, Pavel Fjodorovič,
sembra solido, fondato sul reciproco affetto e inscalfibile. Da Pietroburgo a
Mosca, da Mosca a Parigi, nulla permette all’accompagnatrice di andare oltre la
“soglia del mistero” (p. 56). È solo
per caso che la visita di un uomo, tale Ber, la mette sull’avviso. A quel punto
la scissione si fa più profonda, e il futuro più incerto. Perché Marija
Nikolaevna si innamora, e l’amore porta all’imprudenza e al sacrificio di sé,
spesso alla rovina, ma non lei, non la cantante, sempre padrona di sé,
nonostante una certa ombra negli occhi. E più
la donna rifulge, più Sonečka si sente sbiadire, e la sua invidia cresce.
Mi appoggiavo con entrambe le mani a una stretta specchiera e mi guardavo, mi guardavo il viso, come se non lo avessi mai visto così da vicino. E più mi guardavo, più mi sembrava di non essere io, ma l’altra, dal fondo dello specchio, a guardarmi, con gli occhi di una persona pronta a dar fuoco alla casa e mi sembrava già di vederla stringere, nella mano pallida e nodosa, la miccia fumante. (p. 57-58)
Non si può dir oltre, per non rovinare la lettura. L’accompgnatrice è una
storia sottilmente disturbante, che racconta di un fallimento esistenziale,
di una giovane donna condannata più che dalla sorte dalla sua stessa
inettitudine alla vita, che le impedisce di liberarsi dalla gabbia del proprio
stesso sentire. Per questo risulta perfettamente coerente, e tanto più amaro,
il finale, che si dispiega su una speranza che non si può non pensare vana. Se
l’inizio del racconto poteva evocare atmosfere alla All About Eve, la morale conclusiva conduce invece a una
riflessione completamente diversa, quasi opposta. Nina Berberova si conferma quindi
attenta osservatrice dei moti dell’animo, di cui coglie e restituisce anche le
sfumature più inconfessabili.
Carolina Pernigo