Le ultime ore di vita di "Un uomo solo". La tragedia di Luigi Tenco nel racconto di Antonio Iovane

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Un uomo solo
di Antonio Iovane
Mondadori, 2022

pp. 132
€ 17,00 (cartaceo)
€  9,99 (e-book)


A ventotto anni Luigi Tenco vive nell'urgenza. (p. 15)
L'urgenza del giovane cantautore è quella di testimoniare, di dire qualcosa di serio, di far conoscere le proprie idee, di provare a cambiare quella società che non gli piace, un anelito che lo spinge a rompere il velo dietro al quale i benpensanti e i conformisti guardano la realtà, ma anche quello sterile anticonformismo con cui i giovani suoi coetanei inneggiano al pacifismo, si schierano contro le guerre lontane, senza lanciare uno sguardo ai problemi concreti dell'Italia del tempo, la mafia, la corruzione, il clericalismo, l'affarismo, la burocrazia, la mancanza di una legge sul divorzio.
Ha urgenza Luigi Tenco, non ha tempo per volare nel blu dipinto di blu, per struggersi d'amore, per cantare le bandiere gialle. A ventotto anni Luigi Tenco non ha più tempo. Anche perché, a ventotto anni, Luigi Tenco 
è solo un corpo inanimato in terra, gli occhi al soffitto, camicia e giacca aperte, canottiera bianca, rivoli di sangue dalla bocca e dal naso, che tagliano in due le guance (p. 9)
Il 27 gennaio 1967 Luigi Tenco si è sparato, nel mezzo della diciassettesima edizione del Festival di Sanremo, poche ore dopo aver portato sul palco la sua Ciao amore, ciao, in un'esibizione strana, fuori tempo, chissà se a causa di un tranquillante e troppo alcol o per scelta particolare. Per marcare la differenza rispetto all'esibizione ad ampia voce di Dalida (a quel tempo la stessa canzone era portata da due interpreti), bellissima diva francese, assai charmant, con la quale Tenco ha, o ha avuto, una relazione breve e tormentata. Pochi minuti dopo le 2 di notte da solo, nella sua stanza, la numero 219 dell'Hotel Savoy, Luigi Tenco si spara.
E lo fa per protesta, non tanto e non solo perché la sua canzone è stata bocciata dalla giuria e nemmeno ripescata, ma per dispregio del mondo delle canzonette, quel Sanremo, dove tutto è già deciso, quel pubblico che non lo conosce e non lo riconosce e si trastulla nella stupidità di certi ritornelli. E forse anche per un senso di disperazione verso se stesso, per aver ceduto e aver voluto entrare in quello che per lui è il tempio della mediocrità musicale, solo per farsi conoscere dal grande pubblico.
(...) ed è qui la grande, irrisolta contraddizione di Luigi Tenco, vuole farsi amare da un pubblico che disprezza (p. 43).
Antonio Iovane, per anni voce di Radio Capital, torna su quella vicenda che sconvolse sì l'Italia intera, ma non il carrozzone dello stesso Sanremo... saranno tragicomiche le parole del conduttore, Mike Bongiorno, che aprirà la sera successiva con "una nota di mestizia per il triste evento che ha colpito un valoroso rappresentante del mondo della canzone" e via con le altre canzoni della serata, nel peggiore show must go on che il festival abbia mai incarnato. Il giornalista ripercorre le ultime ore di Luigi Tenco, cariche di tensione, di ripensamenti, di nervosismo e rabbia, ventiquattrore in cui il cantante sembra mettere in gioco la sua esistenza intera, dopo essersi accorto di aver fatto un errore, partecipare al quel festival dove lui non c'entra proprio niente con i vari Modugno, Villa, Reitano... 
Utilizzando giornali, fonti di archivio, testimonianze, ricordi, vecchie interviste, spezzoni tv, Iovane ricostruisce la giornata di Tenco facendoci entrare nei suoi tormenti, nei suoi pensieri, nei suoi dubbi. Entriamo nel dolore vivo di Dalida, la bellissima diva francese che vedrà morire una parte di sé quella notte, tanto che esattamente 20 anni dopo, nel 1987, deciderà di togliersi la vita. Anche lei. Lanciamo uno sguardo dietro le quinte del teatro Ariston, ne respiriamo le pulsioni e le tensioni, torniamo con la mente a canzoni ormai passate nel dimenticatoio o quasi. E in mezzo a tutto questo fermento c'è lui, Luigi Tenco, con il suo carico di angoscia che svuota nel bicchiere di grappa alle pere che beve appena prima di salire sul palco. Intorno  a lui cantanti vanno e vengono, le prove, le chiamate, l'ansia che monta e poi si scioglie in attesa del voto della giuria, il trucco, i ristoranti che a notte fonda si riempiono di cantanti, il casco d'oro di Caterina Caselli, le rose di Orietta Berti, le battute di Giorgio Gaber, le ragazze che chiedono gli autografi fuori dal teatro, la sua Alfa Romeo Coupé GT 1600 verde, con la pistola, nel cruscotto, l'abito nero con i merletti bianchi di Dalida, che si macchierà del sangue dell'amato. Le note di Ciao amore, ciao che si librano dal palcoscenico e arrivano a una platea non troppo convinta. Fino alla bara che uscirà, troppo presto, dalla camera 219.
E in mezzo loro due, quasi personaggi tratti dal teatro greco, Luigi e Dalida, protagonisti,  lei inconsapevole, lui no, della tragedia che di lì a poco si sarebbe compiuta.
Il merito di Iovane è proprio aver ricostruito un momento inscritto in una vita, l'attimo finale, e di averci regalato non tanto la storia della morte di Luigi Tenco, bensì la storia della vita di un giovane cantautore ossessionato dalla mediocrità e divorato dall'ansia di non avere più tempo.
E se tra i lettori di queste righe, forse i più giovani, che mai hanno sentito parlare di Luigi Tenco, qualcuno si sentisse incuriosito e andasse a cercare su YouTube le note delle sue canzoni, il bel libro di Iovane e la mia modesta recensione avrebbero raggiunto un traguardo. Chissà quanti scoprirebbero di avere tanto in comune con questo bel ragazzo dallo sguardo serio e determinato che si tolse la vita "come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale" (dal biglietto lasciato da Tenco, pag. 113). Non se la prenda l'incolpevole Orietta Berti... 

P.S. Per la cronaca, quell'edizione fu vinta da Claudio Villa e Iva Zanicchi che in coppia cantavano Non pensare a me.

Sabrina Miglio