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"Il figlio recidivo": l'ultimo volume della "Quadrilogia della famiglia" di Fabio Bartolomei

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Il figlio recidivo
di Fabio Bartolomei
edizioni e/o, 2022

pp. 141 
€ 14,00 (cartaceo) 
€ 9,99 (ebook)

 
Con Il figlio recidivo, arriva al suo termine il progetto della Quadrilogia della famiglia di Fabio Bartolomei, che nei tre volumi precedenti ha esplorato in diversa maniera e misura le disfunzionalità e le risorse dei legami famigliari (e non è casuale l’ordine in cui ho citato gli elementi).
In Morti ma senza esagerare (recensito qui) il desiderio di una figlia di non perdere i propri genitori, mancati troppo presto, la porta a immolare la loro libertà post mortem sull’altare del proprio egoismo, costringendoli in qualche modo a rivivere, anche materialmente, in funzione di lei; in Diciotto anni e dieci giorni (recensito qui), invece, le figure genitoriali sono tanto inadeguate, tanto assenti, tanto incapaci di costituirsi modelli di riferimento che la giovane Camilla deve imparare a diventare grande nonostante loro. Il più recente Tutto perfetto tranne la madre (recensito qui) ha il passo di un giallo esistenziale, perché il protagonista deve ricostruire degli aspetti rimossi del proprio passato e l’indagine lo porta a rimettere in discussione l’immagine perfetta di un padre-eroe, per recuperare invece quella di una madre perduta e quasi dimenticata.
In tutti questi volumi, Bartolomei pone esplicitamente al centro dinamiche viscerali, veicolate in qualche modo dal sangue e dai trascorsi condivisi, quasi esclusivamente in relazione al rapporto che lega i figli a chi li ha messi al mondo. 

Premessa parzialmente diversa è quella de Il figlio recidivo, in cui il protagonista, Tommaso, quarantacinquenne, una vera famiglia non l’ha mai avuta. Rifiutato bambino da genitori mai conosciuti, sballottato tra istituti religiosi e case famiglia, Tommaso è cresciuto con un vuoto incolmabile dentro – da riempire con il cibo, con l’affetto, con le menzogne dietro cui si nasconde per simulare una vita riuscita e prevenire ulteriori abbandoni.
Incapace di avere relazioni sincere con i suoi pari, soprattutto con le donne, l’uomo entra invece facilmente in relazione con le persone anziane.

All’inizio del racconto lo troviamo infatti in questura, dove è accusato di circonvenzione di incapace a scopo di truffa. La ricostruzione della sua storia, a partire dai suoi rapporti con la defunta Orietta Lassini, che è morta nominando lui, di fatto un estraneo, suo unico erede, avviene in una sala che si fa teatro, di fronte a una platea di spettatori, ora curiosi, ora inorriditi. Arrivata a settantotto anni, completamente sola, Orietta aveva trovato in Tommaso, incontrato per caso (o forse no?) una persona gentile e disposta a occuparsi di lei, una persona che l’aveva coinvolta in nuovi progetti, facendola sentire di nuovo, tardivamente, viva. Di fatto, il figlio che non aveva mai avuto. Lo stesso era capitato poi con Aldo, e prima con molti altri.

La famiglia, in questo caso, non è qualcosa che capita, ma che si può scegliere. Tommaso sa bene quali bachi si porta dentro chi non ha alle spalle la cura e l’amore, e vuole recuperare adesso, con accordi molto chiari, quasi contrattualistici, stipulati dopo essersi reso indispensabile a persone fragili e ormai quasi arrese all’età, al tempo limitato:
Non c’è pietà per chi è lento, per chi è debole, per chi è solo. Non c’è speranza per chi non ha alle spalle il ricordo della casa in cui è nato, della crema solare spalmata sulla schiena, di qualcuno sempre pronto a soffiare sulle ferite. […] Forse tu stavi tanto bene ed eri tanto felice anche prima di incontrarmi. Io no, mi sento felice e realizzato solo se posso prendermi cura di te, se so che in caso di necessità tu ti prenderai cura di me. Come una famiglia. (p. 84)
La spettacolarizzazione del racconto permette di mantenere uno sguardo esterno rispetto alla narrazione dei fatti, che è presentata attraverso una stringente focalizzazione interna e rischia di avviluppare il lettore, pur essendo evidentemente inaffidabile.

È impossibile, e da questo emerge ancora una volta la bravura di Bartolomei, districare il groviglio di motivazioni che muove Tommaso. L’uomo è ingenuo o calcolatore? Il suo trauma giustifica davvero il suo operato? Quello che lui fa è un lavoro di caregiving, o qualcosa di più profondo? La sua può davvero essere considerata una truffa, considerato il tempo, le energie e la dedizione che lui mette nell’assistere i suoi “padri”, le sue “madri”? L’ambiguità è confermata dal fatto che Tommaso è davvero bravo con gli anziani di cui si occupa, a cui si offre esplicitamente come figura filiale (e in questo senso l’eredità non è per lui che la naturale conseguenza del rapporto costituito), e a cui è in grado di dare ciò di cui hanno bisogno anche da un punto di vista affettivo. Tanto risulta imbranato con i coetanei, tanto con gli accuditi riesce a essere stimolante, ironico, regalandoci alcuni momenti ironici “alla Bartolomei” anche in un testo che in realtà si presenta suscettibile di molte riflessioni tutt’altro che disimpegnate:
“Devi premere qui dove c’è scritto Carta d’identità” […].
“Scusa, ma se ‘sto coso serve a fa’ le prenotazioni, […] perché non hanno messo er tasto prenota invece di seleziona? La gente se confonde”.
“Perché vi odiano. Se fosse tutto semplice e logico voi vecchi riuscireste a cavarmela e vi sentireste ancora parte attiva della società, magari pure felici”.
Aldo aveva schioccato le dita. (p. 72)
Tommaso sceglie di essere figlio invece che ingegnere perché preferisce costruire famiglie piuttosto che ponti, e poco importa che gli anziani che sceglie abbiano un’aspettativa di vita di circa un anno da quando lo incontrano. Lui fa del suo bisogno d’amore una professione molto redditizia, e le obiezioni etiche che emergono dagli astanti, non ultimo l’ispettore che deve registrare la sua testimonianza, passano in qualche modo in secondo piano rispetto al fatto che sussistano anziani soli che desiderano quel tipo di accudimento, quel tipo di relazione, nonostante le implicazioni.
Bartolomei ci porta un’ultima volta al cuore del concetto di famiglia, andando a sondare gli abissi dei legami genitori-figli e interrogandoci su cosa li definiscano. Tra i volumi editi fino ad ora, questo è quello che lascia il lettore più incerto a livello di valutazione conclusiva, più implicato in un rovello di domande che non trovano risposte univoche, perché di fatto non le ha la questione che sta alla base della ricerca.

Carolina Pernigo