Due storie fra mille: «Più alto del mare» di Francesca Melandri



Più alto del mare

di Francesca Melandri

Bompiani, 2022

 

pp. 244

€ 12 (cartaceo)

€ 7,99 (ebook)


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In Francia nel 1789 c’erano la parola e anche la cosa. Nel 1848 in tutta Europa dilagò la parola a soprattutto la cosa. Anche in Russia nel 1917 c’erano entrambe, così come a Cuba nel ’59. Ma nell’Italia del 1979, per quanto la parola rivoluzione fosse scandita, ciclostilata, scritta sui muri in modo quasi ossessivo, la cosa no, la cosa non c’era. (p. 159)

Ho conosciuto Francesca Melandri nel 2017 con il suo Sangue giusto, edito da Rizzoli (qui il mio articolo e qui l’intervista all’autrice), un libro molto intenso in grado di legare, con estrema eleganza, la storia familiare dei personaggi a quella Storia con la S maiuscola di cui si legge nei libri scolastici; un romanzo nel quale convivono invenzione letteraria e fatti reali, e che affonda le radici nel passato oscuro del colonialismo italiano.

Cinque anni prima di Sangue giusto, Francesca Melandri pubblicava, sempre per Rizzoli, Più alto del mare, oggi ristampato da Bompiani con una notevole illustrazione di Nicola Magrin a fare da cornice. Anche qui possiamo ritrovare il connubio fra narrazioni familiari di pura invenzione ed eventi ben precisi, stavolta riconducibili al periodo del terrorismo italiano degli anni Settanta. A differenza del suo più recente romanzo, in questo i fatti storici sono meno rilevanti e fungono da cornice – da motore della narrazione – più che essere parte dell’intreccio narrativo. Entrambi i protagonisti infatti vanno a trovare delle persone detenute in un carcere che non viene mai nominato ma che è riconducibile a quello dell’Asinara: Luisa va a trovare suo marito, un uomo violento e grezzo; Paolo invece il proprio figlio, colpevole di aver preso parte ad azioni terroristiche.

Luisa e Paolo sono due personaggi spezzati dalle vicende familiari, una donna e un uomo che appaiono opachi, spenti, perché la loro esistenza ruota intorno ai detenuti di cui sembrano essere mere emanazioni, e dalle cui visite non traggono alcun conforto. Questo è uno dei punti centrali del romanzo: la visita al detenuto, che nel tempo si è fatta rituale ed è stata integrata nella vita del visitatore, non provoca giovamento né in Luisa né in Paolo, i quali affrontano il viaggio come fosse una condanna. Allora perché andare fino all’Asinara? Perché sopportare un lungo viaggio via mare, sottoporsi alle umilianti ispezioni, perché fustigarsi l’animo con pensieri ed emozioni negativi? Francesca Melandri, che con saggezza evita di essere didascalica, non spiega mai le motivazioni che spingono i due. Attraverso le loro parole e le loro azioni, però, possiamo tracciare un sentiero.

Paolo, che si ritrova a disprezzare il figlio, verso il quale nutre sentimenti quasi tutti negativi, a malapena sembra riuscire a considerare l’essere umano all’interno del carcere come qualcuno – qualcosa – che un tempo aveva fatto parte della propria esistenza. Eppure quell’individuo all’interno della cella, quello che ha sulla propria coscienza più di una persona, è suo figlio. È parte di lui. È stato Paolo, pur senza volerlo, a indirizzare quel figlio verso i temi dell’ingiustizia sociale. È stato Paolo a spargere i semi del mostro che sarebbe diventato. È suo compito, dunque, suo dovere morale tenere a mente tutto questo.

Luisa invece, nel sapere che suo marito è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, lontano dal talamo nuziale e dai figli che crescono senza di lui, prova sollievo. Pur vincolata al modo di ragionare e di agire della tradizione contadina, è una donna libera: molto più libera ora di quando viveva insieme al marito. È libera di vivere senza la violenza domestica. Il suo viaggio all’interno dell’Asinara è dunque anch’esso un modo per ricordare quello che avrebbe potuto essere e che, per sua fortuna, non è stato.

Paolo e Luisa sono pezzi complementari di una stessa immagine. Entrambi riservati, entrambi schivi, si ritrovano però a confortarsi a vicenda, a donarsi speranza in un momento cupo della propria vita. Francesca Melandri racconta la loro storia con delicatezza, e insieme alle voci di questi due personaggi riusciamo a cogliere una eco lontana delle voci di tutte quelle persone le cui vite sono scandite – segnate – dai rituali delle visite carcerarie. Più alto del mare avrebbe potuto essere una critica al sistema di detenzione, così come un modo per indagare in maniera ancora più approfondita i dolori di chi con quel sistema deve convivere ogni giorno. Francesca Melandri compie una scelta radicale: sorvola il tema, lo oltrepassa per accostarsi a due esistenze ai margini della storia. Ci racconta le loro vicende, le loro poche gioie e le loro tante sofferenze. Ci fa intuire tutto il resto; tutto quel non detto che avrebbe potuto essere raccontato e non è stato fatto.

Da qui, da questo sommerso, possiamo partire noi lettori per avvicinarsi a quelle altre storie.


David Valentini