Uno
degli indubbi lasciti del Covid è stato lo sdoganamento degli incontri con l’autore
online. Se da un lato nessuno può nutrire dubbi sul fatto che questi non abbiano
lo stesso impatto di quelli dal vivo, è certo altrettanto vero che Meet e Zoom
hanno reso possibili appuntamenti a cui tanti non avrebbero altrimenti mai
potuto partecipare. È sicuramente il caso, per quanto mi riguarda, di quello
organizzato ieri sera da NN editore con lo scrittore americano Jason Mott.
Mentre leggevo il suo stranissimo, sfaccettato Che razza di libro! (recensito qui) non riuscivo assolutamente a
figurarmi l’autore. Mi veniva spontaneo sovrapporlo al protagonista e io
narrante, uno scrittore scanzonato, incidentalmente nero, impegnato in un tour
promozionale del suo libro (che, altrettanto casualmente, aveva lo stesso
titolo di quello che stavo leggendo), ma anche in un percorso di ricerca
personale e coscienza civile. Adesso che l’ho visto, l’impressione di questa
sovrapposizione un po’ sfasata si è consolidata. E d’altronde il gioco delle identità, delle figure
che si accumulano, e si scambiano, e diventano indistinguibili pur restando
sempre se stesse, è anche il meccanismo costruttivo della trama di un’opera
che, va detto, non si può descrivere appieno, ma va soltanto e semplicemente letta.
Jason
Mott appare, nel suo riquadrino digitale, affascinante, sorridente, molto
incisivo. Cerco di non immaginarlo nudo mentre corre per i corridoi di un
albergo del Midwest come la sua proiezione letteraria. D’altronde, nel romanzo
lo scrittore si presenta così, e già dalla prima pagina in cui si fa la sua
conoscenza lo si ama per questo. Dialogano con lui, nel mondo reale, Valentina
Daniele, traduttrice del volume, e Serena Daniele, editor di NN.
Che razza di libro! di Jason Mott NN editore, maggio 2022 pp. 320 € 19 (cartaceo) € 9,99 (ebook) LEGGI LA RECENSIONE VEDI IL LIBRO SU AMAZON |
A strappare
un sorriso ai lettori contribuiscono anche le molteplici citazioni dai film noir, che hanno rappresentato una vera, ma
divertente, sfida per la traduttrice. Il protagonista del romanzo è infatti un
grande appassionato di Humphrey Bogart e dei grandi film della Hollywood
classica, che veicolano un certo immaginario, delle espressioni, un linguaggio
(“Vado pazzo per i film in bianco e nero.
Avete capito quali. Quelli con gli uomini che parlano a raffica e le donne che
parlano ancora più a raffica”, p. 24). Il personaggio utilizza spesso
questi stilemi nelle sue conversazioni, soprattutto quando incontra qualche
donna avvenente. Mott conferma di adorare a sua volta questi film, il modo in
cui parlavano i personaggi su quelle pellicole. Dal punto di vista dei riferimenti
letterari, invece, cita William Golding (Il
signore delle mosche è uno dei suoi libri preferiti), Toni Morrison, Hunter
S. Thompson.
Un’interessante
domanda riguarda gli elementi fantastici nel romanzo, anche in virtù delle sue
opere precedenti in cui questo elemento era molto presente. Anche in Che razza di libro! il tema diventa
centrale perché il protagonista non riesce a distinguere cosa sia reale e cosa
non lo sia, e quindi non lo capisce fino in fondo neppure il lettore. Mott, che
è stato in passato un ragazzino pieno di immaginazione, osserva che questo è
stato importante nel suo libro per descrivere un autore che vive soprattutto nella sua testa, ma che finisce per
scontrarsi con la vita reale.
“Il romanzo vuole mescolare realtà e
immaginazione”, osserva. L’immaginazione è una porta a doppio senso, che da un lato dà concretezza a Nerofumo,
inizialmente proiezione della mente del protagonista, ma in cui lo stesso
scrittore si rifugia per evadere dal mondo reale. Mott si rende conto che l’immaginazione
è un’arma a doppio taglio, che non può essere usata indiscriminatamente. Il
romanzo è un modo per cercare una
misura, un equilibro tra i due elementi del finzionale e del reale.
Orientata a questo scopo è anche la particolarità strutturale del romanzo, che alterna due punti di vista: il racconto in
prima persona dello scrittore senza nome e la storia in terza persona del
piccolo Nerofumo. Jason Mott spiega questa duplice prospettiva con il tentativo
di comunicare alcuni elementi di memoir,
legati alla sua stessa vita, ma anche di lasciar
spazio ad altre storie, o meglio alle storie di altri. Per lo stesso
motivo, anche la scelta di non dare nome
ai personaggi è voluta: i personaggi devono nascondersi dagli altri così
come si nasconde lo scrittore, l’autore, tutti i neri da questa realtà. In
alcune stesure precedenti lui aveva provato a dare un nome ai personaggi, ma
non funzionava, avrebbe voluto dire andare oltre quello che i personaggi dovevano
rappresentare. La sovrapposizione delle identità cui si faceva cenno prima è quindi
funzionale alla tematica della violenza razziale in America.
L’intento preciso della scrittura, commenta Mott, è quello
di non permettere mai al lettore di
comprendere di chi si sta parlando, perché ognuno dei personaggi si nasconde, questa è la loro dimensione, che
deve essere trasmessa al lettore e in cui il lettore si può riconoscere.
Tutti
i personaggi vivono esistenze separate, ma procedendo col romanzo si
sovrappongono, perché la violenza impatta su tutte le loro vite.
Connesso
a questo è il tema dell’invisibilità,
presentata sempre nella sua ambivalenza,
poiché può essere una maledizione, ma anche una forma di protezione, salvezza.
Mott risponde alla domanda che gli viene posta facendo riferimento alla sua
stessa esperienza. Da piccolo era un bambino che leggeva molto e per questo
spesso veniva bullizzato, e tante volte ha desiderato essere invisibile. Anche
molti genitori di bambini afroamericani dicono ai figli di cercare di non
emergere, di passare inosservati, per non correre rischi. Da un lato quindi c’è
un senso di sicurezza, ma dall’altro chi è invisibile perde la voce e la
possibilità di farsi sentire e rispettare. Ci sono pertanto aspetti positivi e
negativi, che devono essere bilanciati.
Ma che
cosa significa per lui essere un autore
nero negli Stati Uniti? Mott prova a rispondere a questa domanda tutti i
giorni, e cerca di farlo anche nel libro: racconta, lì, come a noi durante l’incontro,
la divisione costante tra il senso di
responsabilità di chi deve parlare per
conto di, farsi portatore di un messaggio che ci si aspetta da lui, e il
desiderio invece di fare altro, di dire altro. Il rischio, nota Mott, è di
scontentare tutti, ma anche se stessi. A livello personale, non si aspettava
certo che il libro ottenesse tanto successo. È sorpreso in particolare dal
fatto che Che razza di libro! sia
stato letto e apprezzato anche da lettori giovani. Quando l’ha scritto, lui non
pensava infatti a questi come primi destinatari, ma si è reso conto che questo scritto
è anche una lettera al se stesso giovane,
e quindi può essere che ci siano dei ragazzini di quell’età che possono
riconoscersi in alcuni personaggi o elementi narrativi.
Carolina Pernigo
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