in

#ScrittoriInAscolto - Incontro con il premio Pulitzer Colson Whitehead: «Se non hai niente di interessante da dire su un argomento, allora non dire niente»

- -



 
Incontrare un gigante della letteratura contemporanea, dialogare con lui, a ritmo serrato, per più di un’ora, ripercorrendo una carriera letteraria costellata di premi, progetti editoriali sempre diversi: c’è di che sentirsi in soggezione di fronte a un autore per ben due volte vincitore del Premio Pulitzer oltre che di numerosi altri premi importanti. Eppure, cinque minuti dopo che Colson Whitehead inizia a parlare dimentichi di essere di fronte a una delle voci più influenti della letteratura contemporanea, che i suddetti premi non sembrano aver cambiato più di tanto, quantomeno non nell’entusiasmo, nella disponibilità al dialogo e al confronto. Si avverte un’umiltà di fondo che si mescola alla dovuta consapevolezza del ruolo centrale che occupa nel panorama culturale odierno, la passione viscerale per la scrittura, messa costantemente alla prova da storie sempre diverse, nella costruzione di una bibliografia personale così densamente polifonica, sempre rinnovata.
Sono molte le domande che io e gli altri giornalisti poniamo a Whitehead nel corso della lunga intervista organizzata da Mondadori e più di tutte mi colpisce la risposta che mi dà personalmente in merito appunto al rinnovamento continuo della sua opera, il confronto con generi e argomenti sempre diversi.

Leggi la recensione

Vedi il libro su Amazon
Che privilegio essere qui di fronte a lei, Mr Whitehead! Nelle sue opere si misura da sempre con generi e argomenti diversi. Dà l’idea che ogni genere abbia una sua dignità, se trattato a dovere. Sceglie prima la storia o il modo in cui raccontarla? Quanto una cosa influenza l’altra?
Grazie davvero per la domanda. L’angolazione, il modo di narrare sono cose che vengono in un secondo momento; prima di tutto arriva l’ispirazione iniziale, poi in un secondo momento penso se per quella storia specifica usare un tempo presente, un passato remoto, se scrivere in prima o terza persona e via dicendo. Per me funziona in un modo abbastanza semplice: sarebbe divertente per me scrivere un romanzo su un piccolo criminale alle prese con un colpaccio che lo sistemi? Sarebbe divertente per me scrivere un romanzo sulle ferrovie e lo schiavismo? Insomma, parto sempre da questo e mi chiedo: posso farlo? Certo che posso. Nessuno mi sbatte fuori dal sindacato degli scrittori. Quindi sono molto d’accordo con la tua idea di “dignità” di tutti i generi letterari e quello che io adoro del lavoro che faccio è proprio la possibilità che mi dà di esplorare generi diversi, sapendo che tutti hanno pari dignità.
Proseguendo su questo discorso, Whitehead riflette sulle sterili etichette di genere, su un certo snobismo con cui talvolta si guarda alla letteratura; uno sguardo così marginale, a suo avviso, è sinonimo di una «persona di letture limitate. In America ormai la divisione di genere è una stupidaggine, non si dà più peso a queste presunte differenze e il concetto stesso di genere è del tutto irrilevante».

Leggi la recensione

Vedi il libro su Amazon
Ascolta l'audiolibro su Audible
Ripercorrendo la sua produzione letteraria recente notiamo tutti che lo sguardo dello scrittore si è spostato dal contemporaneo al passato, più o meno recente. Nell’ultimo romanzo pubblicato per esempio, Il ritmo di Harlem, l’ambientazione temporale scelta sono gli anni Sessanta, come anche ne I ragazzi della Nickel – a mio avviso il suo capolavoro, che gli è valso il secondo premio Pulitzer:
Per i miei primi due libri avevo scelto un’ambientazione contemporanea, ma dopo quelli mi sembrava di aver esaurito le cose da dire sul presente. E va bene così, perché la storia offre materiale creativo di prim’ordine. Sono poi passato anche dal sud all’ambientazione newyorkese. Mi sono chiesto: posso scrivere un romanzo sul genere de Il colpo grosso? E dove lo potrei ambientare? Mi sono detto che avrei potuto sfruttare determinati eventi della storia effettiva della mia città e di Harlem: il blackout del ’77, per esempio, le rivolte contro la polizia del ’64. Queste sono state le idee. Posso fare un romanzo sui piccoli criminali che progettano un grande colpo e che poi gli va male? Ho messo insieme alcuni momenti che potevano servire da cornice e pezzo per pezzo ho iniziato a costruire la storia. Alla fine sono praticamente tre storie diverse, per altrettanti momenti storici diversi.

È interessante e per certi versi spiazzante la risposta che Whitehead ancora ci fornisce sull’ambientazione temporale dei suoi romanzi:
Leggi la recensione

Vedi il libro su Amazon
Come dicevo, i miei primi due romanzi erano ambientati nella contemporaneità. Sono dell’idea che, se non hai niente di interessante da dire su un argomento, allora non dire niente; sono convinto che un ventinovenne incazzato di oggi abbia cose più interessanti di me da dire sul presente, sia ben più consapevole di ciò che non funziona rispetto a me che ormai sono un uomo di mezza età con figli. Per questo mi sono rivolto ai romanzi storici, perché mi sembra che siano una fonte molto utile e feconda di creatività; non è affatto male uscire dalla contemporaneità e mettermi nei panni di chi ha vissuto prima di me. Lo trovo utile in sé e mi sembra che abbia anche pagato. Il lavoro di documentazione è uno stimolo aggiuntivo e per ogni libro è diverso. Una fonte utilissima per "
La ferrovia sotterranea" sono stati i memoir di schiavi, anche per il lessico, da cui ho molto attinto per esempio per la costruzione della lingua, mi sono nutrito del loro lessico, di quel linguaggio. Per "Il ritmo di Harlem" invece una fonte primaria sono stati i giornali dell’epoca e ricordo di essere andato alla sede del New York Times per consultare gli archivi della rivista. Sono due esempi di fonti su cui svolgo il mio lavoro di ricerca e di documentazione per ogni libro.

Se è vero che il mondo contemporaneo in qualche modo penetra nei suoi romanzi, il discorso sul presente e le sue istanze diviene problematico e Whitehead convoglia l’attenzione verso temi più sicuri, dalla scrittura alle ultime pubblicazioni. Ma è difficile resistere alla tentazione di interrogarsi insieme a lui sulle tante contraddizioni del presente, sull’America post Trump, sulla tematica razziale. Lui che, come ricorda un collega, qualche anno fa alla domanda di un giornalista su quale film a suo parere rappresentasse meglio gli Stati Uniti contemporanei aveva risposto senza esitare: Mad Max fury road. Opinione che non sembra aver mutato:
Penso che gli Stati Uniti siano usciti dai binari già da diverso tempo, non servivano doti profetiche per accorgersene ma bastava guardarsi intorno: cortei neonazisti, violenza armata e sparatorie. La società da tempo si è spaccata, frammentata.
Per un attimo rischiamo forse di innervosirlo con la nostra curiosità che ci porta ancora a porgergli domande sul presente e le sue istanze più controverse, ma con garbo e fermezza Whitehead ci ricorda che non ha interesse a partecipare a un certo tipo di dibattito – nello specifico ci si riferiva alla cancel culture – preferendo non esprimere a ogni costo un’opinione come invece, ci verrebbe da rispondere, pare andare per la maggiore, anche quando non si ha nulla da offrire al dibattito.

Per tutto il tempo dell’intervista si sono rincorsi molti nomi che hanno segnato la letteratura nordamericana e in modo specifico lo stesso Whitehead; Toni Morrison, naturalmente, James Baldwin, Ralph Waldo Ellison, solo per citarne alcuni, i più frequentemente nominati. Ma leggendo le pagine di Whitehead ho pensato molto anche a un altro collega suo contemporaneo, con la cui scrittura ho sempre notato una certa affinità: Percival Everett, autore altrettanto poliedrico, mai uguale a se stesso. E che, soprattutto, come Whitehead sembra non fare della questione razziale ragione letteraria assoluta. Quando gli chiedo appunto come si rapporti da scrittore in merito a tale tematica, Whitehead sottolinea con fermezza come questa non sia sempre centrale nei suoi libri:
Ho scritto anche libri che non affrontano la tematica razziale. Per me il punto nella scrittura è un altro: ho un’idea, un progetto e lo porto avanti. C’è stato un tempo in cui gli scrittori afroamericani erano veramente pochi e quei pochi dovevano scrivere a nome di tutti i neri, ma oggi non è più così. Uno scrittore afro non deve occuparsi per forza della questione razziale.
Quest’ultimo punto mi resta in testa per molto tempo e ripensando alla nostra chiacchierata nell’insieme mi sembra di notare un fil rouge nel suo modo di porsi non solo alla scrittura ma alla vita in generale: libero da etichette, non cedevole alle lusinghe ma ben ancorato a se stesso. E se dovessi scegliere una sola parola per descrivere il tempo trascorso con Whitehead senza dubbio userei “libertà”: di essere e scrivere ciò che si vuole, senza cedere a ciò che gli altri si aspettano.

Di Debora Lambruschini