Essere proprietari di una libreria è molto più che vendere frasi. È mettere le frasi giuste nelle mani giuste. (p.64).
dice Sylvia ad un'arcigna Gertrude Stein. La protagonista rimane folgorata dalla lettura di Dedalus, Ritratto dell'artista da giovane di James Joyce, sente che quel libro, in fondo parli di lei, proprio di lei; sente che l'universo senza grammatica che Joyce va delineando nella pubblicazione a puntate in una rivista del suo nuovo monumentale romanzo, è un mondo in cui lei si trova a proprio agio. «Era un libro che non tollerava compromessi» allo stesso modo in cui ama vivere Sylvia Beach la sua relazione omosessuale con Adrienne, che le dona la sicurezza e il coraggio per cominciare l'avventura che ha lasciato il suo nome ai posteri.
Sylvia apre la libreria fra debiti e soldi finanziati generosamente dalla madre (alla cui figura restano probabilmente legate le pagine più commoventi di questo libro, per certi versi troppo cronachistico), le vendite non vanno immediatamente bene, finché un giorno, ad una cena di amici americani, incontra l'uomo che le avrebbe cambiato la vita.
E Joyce era lì, quasi per miracolo, in biblioteca, straordinariamente immobile su una sedia di legno. Aveva le lunghe gambe incrociate, le grosse mani penzoloni. Sylvia si chiese se avesse mai suonato il pianoforte con quelle dita, due delle quali avevano gli anelli, su entrambe le mani. La testa aveva una perfetta forma a uovo e guardava fuori dalla finestra verso un albero frondoso con due cardellini che cinguettavano, come se contenessero il significato della vita. Senza badare al cuore che le batteva nervoso, rimase in piedi accanto alla finestra, si schiarì la voce e disse: «Mi pare di capire che lei è il grande James Joyce». Queste parole attirarono l'interesse dell'uomo, e lei poté vedere che gli occhi dietro la montatura in filo di ottone erano di un azzurro magnifico, tranne che per il fatto che l'iride sinistra era offuscata da un velo opaco. Eppure lui non strizzò gli occhi né si sforzò per metterla a fuoco e, anzi, la mise ancor più a disagio dedicandole la stessa attenzione che aveva dedicato agli uccelli e all'albero all'esterno. «Sul grande non saprei esprimermi», rispose. «Però James Joyce è giusto. E lei è...?» (pp. 75/76).
Nasce così l'amicizia che è al centro del romanzo e a cui la tanto deve la letteratura mondiale. Un'amicizia asimmetrica, probabilmente, nella quale Sylvia, nonostante più giovane, ha fatto spesso da sorella maggiore, da aiutante, da paziente consigliera, e a cui lui ha restituito - seppur con una certa tirannia tipica del carattere geniale con cui Maher lo descrive senza affettazione o manierismo - fama, spessore, capacità di trasfigurare la realtà. L'Ulysses fu censurato negli Stati Uniti e la sua pubblicazione fu osteggiata in molti paesi. Non si trovava nessun editore disposto a prendersi questa gatta da pelare; alla fine Sylvia Beach decise di diventare, con la Shakespeare & co. l'editrice di James Joyce e il romanzo ben descrive il rapporto d'amore, intessuto quindi di delusioni ed esaltazioni, gelosie e tormenti, fra Sylvia e l'Ulysses. In confronto a questo rapporto simbiotico, totalizzante, instauratosi fra l'editrice e il romanzo, di cui lei immediatamente ne intuì la portata innovativa, perfino il tumultuoso Hemingway passò in secondo piano.
L'ostetricia è essenziale al piano di Dio quanto la creazione, perché senza le anime coraggiose e altruiste che accompagnano una nuova vita in questo mondo nessuno potrebbe prosperare. Vai avanti, figlia mia. Tua madre e io siamo molto orgogliosi di te. (p. 118).
scrive il padre a Sylvia, in un biglietto che ci fa riflettere sul fatto che ogni creazione artistica sia frutto non solo della creatività di un padre o una madre, ma anche di un 'attività maieutica, che ha dato forma e destino alla creazione. È emozionante scoprire, ad esempio, che, una volta mandato finalmennte in stampa l'Ulysses, Joyce implorò Sylvia di modificare per l'ennesima volta il testo. E lei provò ad opporsi, sfinita da un lavoro di correzione che sembrava infinito, un approdo sempre posticipato ad Itaca. Ma alla fine, lui le disse che erano solo tre parole, le ultime tre parole. Disperata e sfinita, Sylvia accettò. Chiunque abbia amato l'Ulysses sa quanto importanti siano quelle tre parole sì voglio Sì, che in inglese ha un gusto diverso perché I will Yes contiene l'ausiliare (will) del futuro, è un'apertura, molto più che una chiusura d'opera.
Come un'apertura, benché sofferta, fu alla fine la cessione dei diritti dell'Ulysses da parte della Shakespeare & co.; sofferta perché, come dice Joyce nel finale del romanzo il libro e il negozio sono un tutt'uno, un dittico, ma necessaria perché "salvare" un libro significa anche lasciarlo libero di girare per il mondo, donarlo all'umanità.
Kerri Maher ha ricostruito questa storia avvalendosi del libro di memorie scritto da Sylvia Beach (intitolato semplicemente Shakespeare & co., in Italia edito da Neri Pozza), dell'epistolario con Joyce e degli scritti di Adrienne Monnier, la compagna di Sylvia. Gli studi e il percorso che l'hanno portata alla scrittura di questo romanzo sono presentati sinteticamente nella Nota dell'autrice finale.
Un libro che lascia molte riflessioni, che riempie di gioia per il valore dell'amicizia, per la forza dell'amore e della dedizione ad un ideale che contiene. Probabilmente la seconda parte rallenta un po' troppo e la cronaca delle vicende editoriali dell'Ulysses inghiottono le pagine in cui si sente la voce di Sylvia, la sua infelicità legata al suicidio della madre e i suoi dubbi sul proprio futuro. È una biografia che paradossalmente focalizza più spesso su Joyce che su Beach; ma potrebbe anche essere un effetto inevitabile per una donna che ha scelto di svolgere una funzione da "ostetrica". Analogamente la scrittura piana, scorrevole di Maher se conduce il lettore per mano, non presenta mai nemmeno una volta la necessità di un rallentamento, giusto per gustare il paesaggio di un aggettivo o di una metafora. Che, mi sono spesso ripetuta leggendolo, per un libro che ricostruisce la storia del romanzo che ha capovolto le regole linguistiche della letteratura mondiale, è anche abbastanza buffo.
Deborah Donato