Erosione
di Lorenza Pieri
edizioni e/o,
2022
pp. 157
€ 16,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
È Anna, la
figlia di mezzo, a voler riportare i due fratelli e la madre malata di
Alzheimer nella villa al mare dove hanno trascorso tanti anni felici, in un ultimo ritrovo prima che venga venduta.
Il congedo dalla casa ha tutta la malinconia degli addii definitivi, ma porta
anche a riemergere con una sottile tensione molti nodi irrisolti. Costruita in
un punto liminare, tra la costa e il mare, tra l’acqua e il cielo, la casa è
sottoposta a un lento processo di
disfacimento che va di pari passo con l’erosione del suolo, della spiaggia.
I tornado, gli uragani, le maree e la morte delle persone care, così come la
perdita della memoria nelle vecchie generazioni, afflitte dalla malattia, o
nelle nuove, già trascinate lontane, verso nuovi lidi, contribuiscono a cancellare ciò che è stato, in una
spirale di ineluttabilità. Ecco
perché per Anna è importante riportare in vita un rito dell’infanzia, quando prima del trasferimento in
villeggiatura mamma Margaret dava a ciascuno dei figli una scatola di legno di
cedro, da riempire con il necessario, “imparando
l’arte della selezione e a provare la soddisfazione tutta cattolica della
rinuncia” (p. 15).
Le cose
raccontano e si fanno testimoni di quello che gli Amenta, migranti italiani di
inizio secolo, sono stati e sono diventati, a partire dal nonno Giovanni, detto
Joe, che della casa è stato il pilastro e alla cui morte la nipote, con un
pizzico di superstizione, riconduce l’inizio della decadenza.
Amava tutto ciò che l’aveva accompagnata nel tempo, per quanto fossero solo cose vecchie e consumate, che non servivano più. Avevano dentro qualcosa di suo. […] Le cose erano custodi di memoria e sentimenti, portavano tracce degli atomi della sua infanzia, della sua adolescenza, i segni invisibili della sua vita, da cui non riusciva a staccarsi. Si sentiva parte di quel tutto, non c’era differenza tra lei e quello che toccava, era tutto fatto di molecole. Materia. (p. 35)
La storia di famiglia viene ricostruita
attraverso gli oggetti, attraverso
un percorso di risalita al passato tangibile, materico, differente per ognuno
dei tre fratelli. E infatti tre sono le sezioni in cui si articola il romanzo,
ciascuna dedicata a una scatola, a un figlio, la prima e la terza narrate in
terza persona, la seconda lasciata invece alla prospettiva interna, intima di
Geoff. È proprio a quest’ultimo che è attribuita la definizione più lucida,
impietosa del rapporto che li lega, simili
e radicalmente differenti come sono al tempo stesso:
Povera mamma, tutta questa educazione improntata su Gesù e la disciplina, il sacrificio, il confronto, la punizione e il perdono […] e tre figli nevrotici, ognuno a modo suo. Accomunati solo dalla logorrea e dalla continua autoanalisi ma totalmente lontani dall’esempio di Cristo: il fallito, l’evaporata, il buon cattivo. Certo, a pensarci bene mica siamo poi così lontani da Gesù, messi tutti e tre insieme, uni e trini. (p. 69)
Anche quello degli oggetti è allora un rituale solitario, ma al
contempo condiviso, perché attraverso le
scelte ogni fratello si conferma agli altri e a se stesso (“funzioniamo così tra fratelli, alla fine ci
piace confermarci a vicenda chi siamo”, p. 66). I tre giocano ruoli diversi
all’interno del meccanismo narrativo, e ogni prospettiva contribuisce a
costruire, ad aggiungere un tassello, a definire un’immagine più complessa e a
tutto tondo degli altri personaggi. Anna è la figlia di centro, ma non è la più
equilibrata come potrebbe sembrare: giocano in lei molte contraddizioni, non
ultima quella tra la scienza e il fatalismo, tra il bisogno di trovare una
stabilità e l’inquietudine che la anima, e che l’ha portata a essere una
ragazza madre per trovare pieno compimento. Geoff è fragile, instabile,
soggetto a dipendenze materiali e affettive. Anche lui sta crescendo un figlio
da solo, e vive un forte complesso di inferiorità rispetto ai fratelli, da cui
si sente colpevolizzato e giudicato:
Per loro il fatto che abbiamo dovuto svendere la casa di Cape Charles è colpa mia. […] Sono io che li ho costretti a questo passo, dato che non ho mai avuto abbastanza soldi, un lavoro veramente solido, non mi sono tenuto al riparo dai debiti, mi sono fatto turlupinare da una pazza e dalle mie dipendenze, non ho protetto mio figlio. Sono io che ho anteposto i miei problemi ai loro.Non è il mare che prima si è mangiato la spiaggia e adesso sta divorando le fondamenta. Non è il fiume che la attacca alle spalle. Per loro niente conta quanto i miei errori. (p. 63)
L’ultimo oggetto che Geoff mette nella sua scatola sono dei
fiammiferi, con cui avrebbe voluto dar fuoco alla casa, non tanto (o non
soltanto) per rendersi meno doloroso il distacco, ma soprattutto per salvarla
da un’erosione che è una lunga,
insopportabile e strascicata agonia. Infine c’è Bruno, il primogenito,
ricco, ambizioso, arrogante. Anche il suo rapporto con la casa è conflittuale,
pieno di disprezzo: la casa simboleggia una precarietà che vorrebbe rinnegare,
la stessa denunciata dal mondo in fiamme, devastato dal cambiamento climatico.
La stessa esistenza della villa, che sorge tra l’Oceano e un enorme estuario
fluviale, è prova dell’arroganza dell’uomo che ha pensato di poter dominare la
natura ma ne è sopraffatto:
Bruno avrebbe voluto parlarle anche della prepotenza del nonno, del vizio degli esseri umani di sentirsi invincibili, immortali, più forti anche della natura, più tenaci delle onde. “Col capriccio di starsene sul pizzo dell’Oceano convinti pure di farla franca per sempre, di lasciare la traccia, l’eredità, la casa di famiglia sul mare, nei secoli dei secoli. La tracotanza degli antenati”. (p. 130)
Uno sguardo più
profondo però ai cimeli del passato riapre anche in lui un baratro di
sofferenza e spiana la strada a una
fugace ma intensa possibilità d’incontro, con se stesso, con i fratelli,
con quel che resta della casa.
Il nuovo romanzo di Lorenza Pieri si sviluppa non tanto intorno a
una trama, quanto intorno al sentire dei
suoi protagonisti, restituito con grande intelligenza emotiva. Lo scopo
dell’autrice non è rendere i personaggi simpatici, o trovare una soluzione
accomodante, una pacificazione tardiva nel momento in cui questi si trovano
costretti a chiudere i conti rimasti in sospeso. Si vuole anzi sottolineare
l’impossibilità di una via diversa da quella che viene proposta fin dall’inizio,
proprio in nome di quell’erosione che non è solo della villa, o del terreno che
la circonda, ma anche della famiglia Amenta, a partire dal nonno Joe, dalla
madre Margaret ormai dimentica di tutto, dalle vite più o meno alla deriva dei
figli e dei nipoti:
“Da quando è morto nonno l’acqua ha iniziato a berci”. […] Anna si era convinta che nel 1999 fosse mancato lo scudo, il mantello protettivo, ma non solo, che il nonno in qualche modo avesse deciso di portarsi la casa con sé, con l’aiuto delle maree, degli uragani, dei tornado; che pezzo a pezzo avesse iniziato a spargerla un po’ in mare, un po’ nella sabbia, un po’ in cielo, ovunque, in quella dimensione immateriale che chiamiamo più comunemente morte. (p. 18)
Carolina Pernigo