“Nel 1938 non erano molti quelli che nell’imminente e prevedibile Seconda guerra mondiale vedevano l’orribile catastrofe nella quale si sarebbe precipitati”. Così comincia L’ultima partita a carte di Mario Rigoni Stern, frutto di una lectio magistralis da lui tenuta nel 1997 alla Fondazione Cini di Venezia. Non si tratta quindi di un romanzo, come quelli più noti a cui solitamente è associato il suo nome. La natura diversa consente un diverso approccio alla materia narrativa, in cui l’elemento personale può essere abilmente raccordato al quadro più ampio delle dinamiche che hanno condotto al Secondo conflitto mondiale e alla tragedia del suo sviluppo.
edizione con introduzione di Marco Balzano pp. 120 € 10 (cartaceo) € 6,99 (ebook) VEDI IL LIBRO SU AMAZON |
Dapprima l’esperienza di Rigoni Stern, iniziata precocemente all’interno di un reparto di alpieri, è in qualche modo tangenziale alla guerra. A volte lo splendore della natura, la tranquillità dei luoghi delle esercitazioni, portano quasi a dimenticare che la tempesta si è già scatenata.
Fu una selezione dura e severa, quasi spietata, ma conobbi uomini che, a torto o a ragione, della montagna e della vita militare avevano fatto una scelta di vita, mettendovi tutte le loro energie. Cercavo di imitarli e di apprendere da loro capacità e carattere. Dopo pochi mesi non mi sentii più “Gioventù Italiana del Littorio” né un giovane di “Azione Cattolica”, ma alpino a tutti gli effetti. Gli eventi mi fecero crescere in fretta. Ma il precipitare in montagna, come qualche volta mi è accaduto, non è precipitare dentro la storia: anche se dentro un crepaccio non vedevi il fondo e il cielo era lontanissimo, con le tue forze e con l’aiuto dei compagni ne venivi fuori. E dopo, risalito, dalla vetta potevi guardare lontano e i sensi si beavano. Non sapevo quello che si stava preparando nelle Cancellerie e negli Stati Maggiori di Germania e Italia. La morte ci porgeva i bicchieri con i quali brindavamo. (p. 19)Ad aprirgli gli occhi ci pensa poi, e solo progressivamente, il precipitare degli eventi, ripercorsi tappa per tappa in un volume che può diventare un ottimo strumento didattico per insegnanti che abbiano delle classi quinte. La linearità, la chiarezza, l’incisività del testo sono infatti funzionali alla trasmissione di un messaggio forte, rivolto soprattutto ai giovani, che hanno del resto la stessa età che aveva Rigoni Stern durante il periodo su cui si sofferma il suo discorso (cioè tra i diciassette e i ventidue anni).
Durante l’attacco alla Francia, presa alle spalle e già abbattuta dalla campagna tedesca, Mario inizia a percepire alcune delle incongruenze che si nascondono dietro alle cause belliche:
Erano alpini del battaglione Aosta, parlavano la medesima lingua e avevano gli stessi modi di vivere di quelli che stavano combattendo. […] Erano la stessa razza di vacche, lo stesso formaggio, lo stesso tipo di pascolo, le stesse stagioni, ma di un altro stato in guerra. […] Incominciavo a vedere il crepaccio dentro il quale eravamo precipitati? Ma ero ancora troppo giovane per soffermarmi a riflettere su delle fuggevoli sensazioni, troppo lunga e insistente era stata l’educazione all’amore di patria. (p. 32)È soprattutto della retorica, delle parole roboanti degli -ismi che Rigoni Stern invita a diffidare, in quanto manipolatrici delle coscienze, principali ostacoli allo sviluppo di un pensiero critico e ancorato al reale. È infatti oltre i discorsi che si scopre la verità: sul campo di battaglia, nelle fosse scavate lungo il Don, tra le praterie innevate dove il gelo travolge ogni proposito. E comunque non subito, perché l’apprendistato è lungo, doloroso, e passa attraverso i segni lasciati sulla pelle, attraverso la perdita di troppe persone care:
proprio noi che eravamo stati i più esposti e i più sacrificati non ce ne rendevamo conto, tanto quello che per anni ci avevano insegnato a scuola, o predicato, si era radicato nella nostra mente e aveva reso ottusa la ragione. (p. 40-41)L’intuizione, poi provata nei fatti, si ha nell’ultima partita a carte citata nel titolo, e arriva dallo sguardo, pragmatico, concreto di un uomo semplice, lo zio Toni, che ha combattuto la guerra precedente e ora lavora per la Fiat:
Non avremmo vinto mai, che ci credessi. […] – Mussolini è un matto criminale, il re è un inetto, Hitler un pagliaccio peggiore di tutti i criminali.Quella raccontata da Rigoni Stern non è solo una storia di guerra, ma è soprattutto storia di crescita, storia di libertà. E quest’ultima nasce non nasce tanto dalla fine di una prigionia, dalla mancanza di vincoli fisici, quanto appunto dal dispiegarsi della coscienza, dall’apertura di un giovane che si fa adulto alla vita, al mondo, agli altri esseri umani in quanto fratelli.
Continuò: – Noi facciamo dieci autocarri e gli americani ne fanno cento, noi facciamo mille mitragliatrici e loro ne fanno diecimila, noi facciamo diecimila scarpe e loro ne fanno un milione. Se gli u-boot affondano una nave loro ne fanno dieci. Loro hanno ragione e noi torto.
Io non sapevo cosa dire. Era la prima volta che sentivo questo ragionamento, mi veniva quasi da rifiutarlo; nessuno, mai, mi aveva parlato così chiaro. Ero imbevuto di fantasie romantiche e sognavo il Caucaso come montagne nuove da scoprire e da scalare. […]
Queste ultime parole scesero pesanti e riprendemmo l’ultima partita. Loro, quelli contro cui andavo a combattere, avevano il settebello, gli ori, gli assi; noi le scartine. Le nostre figure erano già state tutte giocate. (p. 63)
Era una sera senza rumori di guerra, insolita; la brezza contraria non ci portava il brontolio della battaglia di Stalingrado. Nel nostro settore non si sentiva nemmeno uno sparo isolato. Mi inoltrai nella steppa, camminai senza coscienza del tempo nel silenzio della guerra tra il canto delle quaglie e il brusio degli insetti, nel naso il profumo delle erbe aromatiche e dei fiori selvatici. Grandi nuvoloni salivano all’orizzonte della notte. Mi sdraiai sulla terra e mi lasciai portare per l’universo, perdendomi. Quando ripresi coscienza, non riuscivo a orientarmi. Non si vedevano più le stelle. Da che parte erano i miei compagni? Dove i russi? Forse mi ero inoltrato dietro i loro capisaldi passando nel vuoto tra l’uno e l’altro. No, non mi prese paura, anche se in quel momento mi pareva di essere l’unico uomo vivente per centinaia di chilometri. Chissà perché mi venne in mente un verso di Leopardi: “Del tacito infinito andar del tempo”.
Camminai nella presunta direzione dei miei compagni; uno squarcio nel cielo mi fece apparire le stelle e mi orientai con precisione.
– Ma dove sei stato tutta la notte? – mi chiese Pintossi quando rientrai all’alba. – Eravamo preoccupati. (69-70)
Carolina Pernigo