La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le nostre giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità (Paolo Borsellino).
È stata la mia prima esperienza politica e sarà anche l'ultima. Oggi torno a essere la figlia di Paolo. E in nome dei suoi semplici insegnamenti, chiedo a tutti di non invitarmi il 19 luglio alla commemorazione di via D'Amelio. Non capisco l'antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere. La legalità, per me, non è facciata, è una precondizione di qualsiasi attività (pp. 128-129).
Una volta avevo scritto un nome su un mandato di cattura, lo invio al dottor Borsellino e vedo che lo cancella. Forse ha sbagliato, mi dico, e lo rimetto nella copia finale. Lui viene nella mia stanza e duce: "Ma a che gioco giochiamo? Quel nome non ci deve stare. Preferisco un colpevole fuori che un innocente dentro. Se un uomo è chiacchierato, lo si inquisisce o lo si arresta solo con prove inconfutabili. Altrimenti o rischi di rovinare un innocente oppure, nel caso sia davvero un criminale, gli permetterai di documentare in aula la sua innocenza per una falsa accusa. E poi, che figura ci fa l'ufficio?". Non disse che figura ci faccio io, disse che figura ci fa l'ufficio. Questo era Paolo Borsellino. E questo resta di lui, non solo dopo trent'anni. Questo modo di intendere la giustizia resta per sempre (p. 188).
In mezzo ai fiumi di inchiostro che sono stati versati a proposito del giudice Borsellino (a volte anche da personaggi che non sono stai suoi amici quando era in vita, ma che poi si sono affrettati a dichiarare di esserlo stati dopo la sua morte), il testo di Melati rappresenta un unicum non solo per le dichiarazioni dei figli qui raccolte e che costituiscono un prezioso documento, ma anche perché permette al lettore di comprendere come il giudice Borsellino (e prima di lui l'uomo Paolo) non condannasse i mafiosi a prescindere, ma fosse intenzionato a comprendere le motivazioni che li muovevano ad agire, ben consapevole che solo dalla comprensione e dall'indagine possono arrivare le risposte che si cercano.
E la stessa motivazione deve aver mosso Fiammetta Borsellino quando ha deciso di incontrare Giovanni Graviano, accusato (assieme al fratello Filippo) di essere stato il mandante dell'omicidio del padre.
Comprendere questa "banalità del male" della quale già parlava la scrittrice Hannah Arendt può consentirci di arrivare finalmente alla verità nella tragica vicenda della morte di tanti componenti del pool antimafia che hanno creduto possibile un mutamento sociale e che hanno gettato i semi perché tanti giovani oggi non voltassero più la testa di fronte alle ingiustizie ed alle prevaricazioni della criminalità: fornire finalmente delle risposte ai mille interrogativi che ancora connotano le stragi di mafia è doveroso non solo per i familiari delle vittime, ma anche per una società che possa definirsi "civile".
Ma ora, grazie alla battaglia dei figli del giudice, a trent'anni dalle stragi abbiamo di nuovo la possibilità di scegliere. Non tra ideologie, posizioni e pregiudizi, ma semplicemente individuando un metodo, uno stile. Possiamo rassegnarci e accettare supinamente lo stato delle cose, come se fosse ineluttabile fatalità; oppure avere dubbi, fare domande, interrogarsi senza prevaricazioni non solo sulle stragi, ma su quanto accaduto nei tre decenni successivi. Rileggere, riscrivere tutto, senza paure e senza timori di compiere lesa maestà. Ogni verità, a questo punto, è diventata impossibile? Ebbene, sarebbe altrettanto intollerabile non averne nessuna. Paolo Borsellino ha parlato del "profumo della libertà". Si tratta forse del suo lascito più grande. A futura memoria, se la memoria ha un futuro, come disse Sciascia. Il passato è soltanto una possibilità nelle nostre mani. Come il futuro (pp. 229-230).
Ilaria Pocaforza