Sete
di Amélie Nothomb
Voland, 2020
pp. 128
€ 16,00 (cartaceo)
€ 8,49 (ebook)
Traduzione
di Isabella Mattazzi
A narrare in prima persona e a proiettarci immediatamente al centro degli
eventi in Sete è Gesù, che ripercorre
le tappe del processo che ha condotto alla sua condanna. Quella che poteva
essere una pura formalità (data la certezza che lui aveva dell’esito) è in
realtà un grande circo, un baraccone
a uso e consumo degli astanti. I miracolati di Cristo vengono convocati come
testimoni dell’accusa, ed è sorprendente come anche atti di pura generosità
possano essere riletti, in piena coscienza, dai beneficiari in chiave negativa.
“Sono un falso calmo”, rivela il
narratore, insieme alla difficoltà a mantenere il controllo mentre si sente
accusare da persone a cui ha voluto solo fare del bene. Quella che viene
proposta da Amelie Nothomb è una riscrittura
della storia e della Passione di Gesù che si inserisce nel solco di molte
altre, ma prova a darne nuova prospettiva, sicuramente coraggiosa e
provocatoria, in quanto focalizzata sul
corpo.
“L’enigma del male non è nulla se paragonato
a quello della mediocrità”, dice il protagonista, che non riesce a
comprendere come il suo messaggio
possa essere stato tanto travisato,
tanto mistificato. Non c’è traccia in lui (come del resto non c’era nei
Vangeli) di distaccata atarassia, ma anzi pieno
coinvolgimento, pieno sentire, che lo rendono – anche grazie alla lettura
sentita di Marco Feroci – subito vicino al lettore. La paura che lui prova non
è astratta, teorica, ma tangibile, materica. Lui stesso realizza di essere “il
più incarnato tra gli uomini”. Il percepire intensamente ogni attimo e
del resto il suo modo per vivere davvero,
per non mancare alla propria missione. Come già rilevava il suo antesignano
borgesiano nella splendida “Giovanni 1, 14”, non si può prescindere dalla carne, se si vuole conoscere l’umano:
“le gioie più grandi della vita le ho
conosciute con il corpo”, il corpo è stato lo strumento dei miracoli, su
cui tuttavia Gesù mantiene uno sguardo critico, poiché distoglievano lo sguardo
della gente dall’amore, per orientarlo al vantaggio che se ne poteva trarre, e
a volte pretenderlo.
A
differenza che in altre versioni, non c’è qui un vero tentativo di riscatto di
Giuda, che viene presentato come un giovane pieno di complessi, ostile e spesso
sgradevole. La difficoltà ad amarlo non reca però detrimento a Gesù, che è
sceso nel mondo proprio per quelli come lui, “i problemi ambulanti, i portatori di imbarazzo, […] i rompiscatole”.
Giuda è, in qualche modo, la missione.
Quando scrive che “un essere incarnato
non compie mai azioni abominevoli”, Nothomb parla di un’intelligenza del corpo calato nel reale, forte del suo esperire,
empatico nel senso più profondo del termine. È solo quando le “menti fragili” smettono di restare
connesse al corpo che il male può divampare.
Eppure
è proprio per sfuggire alla sofferenza che
spesso l’uomo cerca di “disincarnarsi”, di non sentire più. Quello che rifiuta
di fare Cristo nel momento della crocifissione, che infatti diventa uno straziante trionfo dei sensi. Il titolo
stesso dell’opera rimanda alla sete,
che è mancanza divorante, lo stesso
anelito che dovrebbe provare chi vuole avvicinarsi al sacro. Dio è l’amore
improvviso e appagante che deriva dal primo sorso d’acqua, e questo amore è lo
stesso che Cristo prova per gli esseri umani e che vorrebbe insegnare:
“Lo slancio mistico non è che questo. […] La fine della fame si chiama sazietà, la fine della stanchezza si chiama riposo, la fine della sofferenza si chiama conforto, la fine della sete non ha nome. […] L’istante ineffabile in cui l’assetato porta alle labbra un bicchiere d’acqua è Dio, è un istante di amore assoluto e di meraviglia senza limiti.”
Ecco allora perché forse il miracolo più grande, nell’ottica del narratore, può
essere la generosità di Simone di Cirene, che si fa carico del peso della croce
solo perché è giusto farlo, o Veronica che asciuga col suo panno il volto di un
sofferente. In un mondo in cui nessuno sembra indispensabile, gli individui si
equivalgono e vani sono i tentativi per emergere, Gesù predica una legge
impopolare: “l’amore che mi consuma afferma
che ognuno di noi è insostituibile”.
Il
pensiero sotto la croce si disgrega in frammenti, rischia di disperdersi, di
ingaggiare una battaglia con quella voce interiore che invece sussurra
“accetta”, e spinge ad andare avanti, un passo dopo l’altro. Se “il senso della vita è non soffrire” e il
dolore assorbe completamente l’individuo, perché Gesù non coglie l’invito di
molti dei testimoni a sfruttare il suo potere per sottrarsi a quella
situazione? Ha davvero senso morire per amore? In certi momenti, l’uomo appeso
alla croce se lo chiede. Lo chiede a un
Padre lontano e silente, amato
intensamente, ma anche interrogato, apostrofato, contestato. L’uomo, con la
sua inadeguatezza, le sue continue mancanze, la sua fragilità, è la sua
migliore creazione o il peggiore fallimento?
Come
in tutti i suoi romanzi, Nothomb solleva domande
scomode, che interpellano soprattutto il credente. Ripercorre attraverso
l’esperienza della Passione, ben nota alla tradizione, una triade di fenomeni della presenza: l’amore, la sete,
la morte. Il suo Cristo fa esperienza di tutti. Il suo sacrificio non è
motivato da spirito di abnegazione, o da una suprema umiltà, quanto da una profonda coscienza di sé,
dell’importanza del singolo. Dalle sue parole emerge chiaramente che ciascuno è chiamato a diventare una leva
per il bene, a non creare l’inferno su questa terra (laddove l’inferno è la
tendenza di qualcuno a non essere mai soddisfatto, mai appagato, a trovare
sempre qualcosa da ridire). “La fede è
un’attitudine, non un contratto”, ricorda il Cristo risorto, e ciascuno la
può trovare in un volto che incontra, magari per un singolo istante, sul
proprio commino. Mentre racconta una storia collettiva, l’autrice sceglie
ancora una volta di proporre una riflessione che scenda in profondità nel
sentire individuale.
Carolina Pernigo
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