Fantasmi di famiglia
di Maisy Card
Tlon, settembre 2022
Traduzione di Clara Nubile
pp. 370
€ 20 (cartaceo)
Devo ammetterlo:
con la macroscopica eccezione di Cent’anni di solitudine, io sono una di quelle
lettrici che, quando apre un romanzo e vede un albero genealogico, si spaventa.
Non mi fa onore e so di essere in netta minoranza, ma è sempre stato così: poca
memoria per gestire i nomi dei personaggi, per non parlare del disorientamento
per la sconcertante assenza di protagonisti in favore di una miriade di storie
umane intersecanti; insomma, un impegno emotivo assolutamente ingestibile per
una che piange di fronte alle pubblicità della carta igienica, quella con il
famoso golden retriever. Non sono una grande fan delle saghe familiari,
insomma. Finché non ho letto Fantasmi di famiglia, che mi ha fatto
completamente ricredere.
Il punto è che
Fantasmi di famiglia non è una semplice saga familiare. Tanto per cominciare,
l’albero genealogico che apre il romanzo inizia nel Settecento e finisce nel
2020; parte da una donna senza cognome, Florence, nata schiava in una
piantagione giamaicana, che non sentiamo mai parlare, ma la cui presenza
infesta tutti i capitoli dedicati a ciascun personaggio: dalla newyorkese
bianca Debbie, che sembra essere la prima a cercare di guardarsi alle spalle
per ricostruire la propria storia grazie a un diario donatole dal padre, ma
anche il giovane Abe Kincaid, aspirante archivista, che ricostruisce la storia della famiglia proprio
a partire da Florence, nonché, ovviamente, Abel Paisley, colui che apre il
romanzo. Abel, nato nel 1936, è il primo della famiglia ad abbandonare la Giamaica alla volta
dell’Inghilterra prima e di New York poi, e la sua storia si configura come una
prima rottura della geografia del testo, che da qui in poi rimbalzerà
continuamente da Harlem a Kingston, da Brooklyn a Independence City; ma la
storia di Abel apre una faglia ben più profonda nella sua famiglia,
esemplificata da quella che è forse la caratteristica più particolare
dell’albero genealogico: un raddoppiamento identitario. Abel Paisley = Stanford
Solomon. Una falsa uguaglianza che apre una biforcazione nell’albero, che da lui
in poi si sdoppia: un ramo resta in Giamaica, perlomeno all’inizio, e un altro
lo segue a New York, nel luogo dove tutto (o quasi) si ricongiungerà.
Ci siete fin qui? Bene, perché lo sconvolgimento geografico è solo l’inizio del viaggio in cui Maisy Card ci trasporta, nel suo intento di narrare la storia dell’identità afrogiamaicana nell’unico modo possibile: far esplodere qualsiasi demarcazione tramite la molteplicità delle incarnazioni, dei piani geografici, ma anche temporali. Ecco che quindi ci ritroviamo ad assistere a un giovane Abel, sposato da poco e infelicemente con la moglie Vera, mentre, arrivato da poco dalla campagna, da quell’Harold Town di cui scopriremo la storia solo molto più tardi, cerca di navigare la realtà feroce della capitale giamaicana. Ed eccoci poi qualche decennio dopo al funerale di Vera, quando Abel se n’è andato da molto tempo e da molto tempo ormai si fa chiamare Solomon. Un funerale che opera l’ultima spaccatura tra quelle che il romanzo mette in atto: quella tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra il mondo delle vicissitudini umane così tipico delle saghe familiari e quello che invece lo sovrasta, lo inghiotte, non sa cosa farne della temporalità e della genealogia.
Se da una parte Card riesce a
gestire magistralmente la molteplicità umana del romanzo, costruendo un ritmo
narrativo impeccabile, in equilibrio tra realismo psicologico e picchi
strazianti di emotività che si smorzano e stridono con la quotidianità delle
“vite qualunque” dei protagonisti, il suo obiettivo non è fermarsi qui.
Prendendo atto della caducità di ogni vita, e racchiudendo l’arco eroico di
ciascun personaggio in capitoli che funzionano (benissimo) come racconti, Card utilizza
l’espediente familiare per aprire un varco verso una dimensione ben più ampia,
che supera il singolare e l’umano per intrecciarsi non solo alla famosa Storia
con la S maiuscola, ma anche al mondo ben più eterno dell’aldilà. Il mondo del
folclore così caro alla cultura afrogiamaicana, tra presenze che ritornano dal
mondo dei morti, e streghe che cercano pace e comprensione – un po’ come fa quella
Florence che veglia su tutti i suoi discendenti.
Il gioco
narrativo di Maisy Card è tutto qui, nell’alternanza continua tra
l’estremamente particolare e l’eterno, e il suo romanzo fa scuola non solo come
saga familiare ma anche come romanzo che racconta l’identità afrogiamaicana in
un Paese, l’Italia, che finora aveva colpevolmente evitato questo tipo di
narrazione. Ma va bene così: Fantasmi di famiglia è il romanzo ideale per
iniziare.
Marta Olivi
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