A ogni creatura la sua croce: l'altra faccia della guerra nei "Giochi proibiti" di François Boyer


 

Giochi proibiti
di François Boyer
Adelphi, 2022

pp. 130 
€ 16,00 (cartaceo) 
 
Titolo originale: Jeux interdits
Traduzione di Maurizio Ferrara

 
 
È tempo di guerra, ma della guerra si vedono soltanto gli effetti: la lunga coda degli sfollati, i bombardamenti aerei che lasciano dietro di sé, sulla strada polverosa, corpi umani e animali. Tra questi, anche i genitori di Paulette, che ha nove anni e rimane da un momento all’altro sola al mondo. La bambina si trova a vagare in mezzo alla disperazione e alla confusione generale, rese da François Boyer con uno stile visionario, espressionistico, che dà spazio alla prospettiva infantile, dal basso, della piccola, che infatti della gente vede soprattutto i talloni, percepisce gli isterismi senza comprenderne appieno le motivazioni, trasfigura il reale sovvertendo il peso degli elementi, delle priorità.
Il casale di Saint-Faix, a cui approda per caso, si trova solo a cinque chilometri di distanza dalla strada maestra, ma potrebbe essere un altro mondo, un’altra epoca: “Saint-Faix ignorava la Storia. E in quel giorno di giugno del 1940 fu chiaro che la Storia contraccambiava Saint-Faix con un identico disprezzo” (p. 18).
Qui vive una vita ruvida, contadina, sostanzialmente ignara e ignorata, Michel Dollé, dieci anni.
Quando incontra Paulette nel bosco, se ne interessa e la porta a casa con sé. Mentre la furia devastatrice della guerra allontana gli uomini, i rapporti tra i bambini sono semplici, immediati, così come è rapida l’accoglienza della gente di campagna.
“Dov’è tuo padre?”.
“È morto”.
“E tua madre?”.
“È morta”.
“Perché piangi?” chiese Michel. […] “Aiutami, e poi vieni a mangiare a casa nostra”.
“E poi a dormire?”
“E poi anche a dormire”. (p. 24)
Paulette ha però una peculiarità, che va di pari passo con un senso di distacco solo raramente alterato da improvvisi sussulti di rivelazione, ondate di lacrime di nostalgia: Paulette è affascinata dalla morte. È dunque orrorifica la scena di una bambina bionda dal volto angelico che fa danzare il cadavere di un cane, o piuttosto suprema prova di ingenuità, di purezza? Il lettore non può fare a meno di chiederselo. Se inizialmente le descrizioni, dirette, vagamente macabre, possono disturbare, presto si inizia a percepire che ciò che è realmente sbagliato è invece il mondo adulto, o cieco, o francamente ipocrita di fronte al fenomeno della perdita. I gesti compiuti dal prete di Saint-Faux, ad esempio, appaiono alla bambina rituali vuoti, pura forma, come lo spettacolo di un prestigiatore, e diventano gioco, esercizio di coordinazione appena vengono replicati senza consapevolezza. Al contrario, l’attenzione di Paulette, e poi anche quella indotta di Michel, per la morte, porta con sé un senso di profonda, inconsapevole sacralità, e le fosse che i bambini scavano, i “giochi proibiti” in cui indulgono, non possono non richiamare alla memoria del lettore, per contrasto, i corpi insepolti dei genitori della piccola orfana. Mentre in paese viene organizzato, senza gran sentimento, con un senso d’obbligato fastidio, il funerale di un membro della famiglia Dollé, i due bambini ci ricordano che qualunque creatura di Dio, fosse anche un’ape, merita la sua croce. E che onorare davvero i defunti ha un prezzo che deve essere pagato, per quanto alto sia.
Al tempo stesso, il racconto, breve e apparentemente lineare, si complica nel suggerire diversi piani di lettura, aumentando così nel lettore un’inquietudine serpeggiante. Viene infatti condotta una riflessione sull’inimicizia che oppone gli uomini ad altri uomini, per motivi futili, antichi rancori, vani pregiudizi. Basta poi un nonnulla per far esplodere la guerra, col suo carico di devastazione. Basta un nonnulla anche per passar oltre, per tornare a uno stato di quiete di superficie, che potrebbe essere infranta dall’allungarsi di qualsiasi nuova ombra. Il microcosmo della contrada diventa specchio del macrocosmo della nazione, dell’Europa, del mondo intero. Tutti i tentativi di trarre delle conclusioni dagli eventi risultano tanto arzigogolati e vacui da risultare grotteschi, come si può notare dal discorso di padre Joseph ai suoi (pochi) fedeli:
Chi non ha Dio non ha morale, chi non ha un prete non ha morale, chi non ha un tempio non ha morale, un senza morale è un amorale, un amorale è un immorale, evviva la morale, e mamma Dollé aveva concluso: “Ci fa la morale”. (p. 121)
E, così come non è possibile arrivare a un giudizio definitivo sui rapporti che legano gli esseri umani, altrettanto difficile è formulare un’interpretazione univoca su cosa rappresentino i due bambini. Qual è infatti il limite tra il bene e il male, tra la corruzione e l’innocenza? Non è forse tanto sottile quanto quello tra la vita e la morte? E può, alla fine, in questo mondo, scampare qualcosa alla violenza dilagante? Forse la risposta è tutta nella scena conclusiva, di cui non si può dire, se non che condensa in sé tutta l’ambivalenza del volume, ma sembra anche suggerire una linea interpretativa a chi voglia provare a leggere tra le righe. Paulette è infatti leggera come l’aria, come la vita, sa riprendere la sua corsa inarrestabile, ma trova il tempo per indugiare, per sentire, per far spazio al dolore e senso alla morte, laddove gli adulti che la circondano sono invece ancorati alla brutalità dei loro impulsi più immediati, incapaci di scendere in profondità.
Quella di François Boyer è un’opera dissacrante perché va a minare e interrogare il cuore del sacro; un’opera senza tempo, che non pare scritta, come fu, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale e di cui si spiega lo scarso successo all’uscita proprio nella sua natura volutamente sottile, interrogante, in grado di seminare in chi legge un senso di malessere che non si può, e non si deve, dissipare. 

 
Carolina Pernigo