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"Inventarsi una vita". Il dialogo di Magris e Di Paolo alla ricerca della lucentezza delle cose.

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Inventarsi una vita. Un dialogo
di Claudio Magris e Paolo Di Paolo
La nave di Teseo, 2022

pp. 192
€ 15,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Mi pare di avere scritto sempre guidato dall'ansia di trattenere qualcosa, di far durare di più un istante, di ricostruire un mondo scomparso, o anche solo una città, una strada, l'angolo di una casa, per vedere ancora vivo qualcosa che il tempo ha sommerso. (p. 34).

Dice Paolo Di Paolo nel primo dei cinque capitoli (ma potremmo anche chiamarle conversazioni) che formano Inventarsi una vita. Un dialogo.  Un libro edito da La nave di Teseo, che riporta - come un taccuino o uno dei vecchi registraori che si usavano portare alle lezioni universitarie - l'incontro fra Paolo Di Paolo e Claudio Magris, nella mansarda di Via Carpaccio a Trieste. Due scrittori di due diverse generazioni che si interrogano sul presente, ma soprattutto sul modo in cui la scrittura indaga ogni presente, rendendolo per certi versi eterno.

Credo anch'io che si scriva per lottare contro l'oblio, nel desiderio - forse patetico ma appassionato - di fermare, di salvare le cose e soprattutto i volti amati dall'abrasione del tempo, dalla morte. Scrivere è anche un tentativo di costruire un'arca di Noè per salvare tutto ciò che si ama, per salvare - desiderio vano e impossibile, donchisciottesco ma inestirpabile - ogni vita. Desiderio vano e impossibile perché quell'arca è una barchetta fragile e sconquassata e presto affonderà, eppure non si smette di scrivere. Si scrive anche per tante ragioni: talvolta per fare ordine, talvolta per disfare un ordine precostituito; per difendere qualcuno, per aggredire qualcuno. E per amore, per paura, per protesta, per distrarsi dall'impossibilità di vivere, per esorcizzare un vuoto, per cercare il senso della vita. (pp. 35/36).

Risponde Claudio Magris, in quello che è un confronto serrato, in un modus dialogandi di cui veramente oggi se ne sente il bisogno. Vi è il rispetto di Paolo Di Paolo per un maestro indiscusso quale è Claudio Magris, ma non vi è spazio né per l'adulazione né per la soggezione; dall'altra parte, in Magris non vi è mai pateralismo o rimpianto del tempo passato, ma un'attenzione viva e lucida sugli scritti del suo "giovane" interlocutore. Ma, soprattutto, ciò che fa bene riscontrare è che vi sia ancora per gli intellettuali (e finalmente viene da usare questo sostantivo in modo non ironico) la fame dell'interrogare il mondo e dell'interrogarsi sul senso di quanto si fa, lontani dal narcisistico eloquio cui sempre più spesso è ridotto il "citarsi addosso" dei letterati. Le domande che invece i due scrittori si rivolgono a vicenda sono radicali e illiminano il senso stesso della scrittura, che continua ad essere un pharmakon di platoniana memoria che può aiutarci a comprendere la vita, ma ci può anche allontanare da essa. La seconda di queste conversazioni, infatti, si intitola Cosa si perde, scrivendo?

Si perde forsse l'immediatezza, il lasciarsi andare al fluire di sensazioni, sentimenti, pensieri. C'è una necessaria freddezza, una distanza che la scrittura deve istituire nei confronti del suo oggetto, anche o forse anzi soprattutto se e quando si tratta di un oggetto o di una persona particolarmente importante o amata, perché senza questa distanza, inevitabilmente "fredda", non è possibile nessuna vera scrittura, ci sarebbero solo abbandoni sentimentali. (p. 40).

Questa riflessione dà lo spunto per interrogare alcuni grandi scrittori del passato, da Mann a Ibsen, passando per Kafka, Flaubert e Musil, fino al più recente Philip Roth, sul rapporto fra lo scrittore (persona) e la vita, sulla trasfigurazione che lo scrittore (come autore) ne fa.  Le domande di Di Paolo diventano sempre più serrate, ma l'esperienza di Magris resta comunque compagna dei dubbi, della possibilità, di "una vita al congiuntivo" come dice felicemente Robert Musil. 

Il testo prende le mosse dagli Anni Venti, quelli attuali e quelli del secolo scorso. Ci accostiamo subito al piglio critico di Magris, che decostruisce il mito degli anni Ruggenti, trovandoli piuttosto anni conformisti e di ripiego, rispetto alla feconda profondità degli anni Dieci. Di Paolo, tuttavia, lo incalza, dicendo che trova affascinante interrogarsi sui "giri di boa" della Storia, quale quello che attualmente viviamo. Nell'ultima conversazione, intitolata paradossalmente Kafka al  Premio Strega, vi è anche il tempo di fare i conti con gli scrittori attuali, con la "macchina culturale italiana", nella quale la corsa degli autori per la promozione dei libri è «una via di mezzo fra suonare dal vivo in un locale e vendere un aspirapolvere» (p.154). È Confortante che quest'ultima frase sia stata pronunciata non dall'interlocutore anziano, ma dal giovane, che stenta a immaginarsi Calvino o Elsa Morante impegnati in dieci presentazioni in dieci giorni o, appunto, Kafka al Premo Strega. Ciò per l'intensificazione della presenza, che ha caratterizzato la figura dello scrittore.

La posizione di questo dialogo è una inquieta e interessante via di mezzo fra gli apocalittici e gli integrati (la citazione di Eco la fa lo stesso Magris), nella consapevolezza che proprio in questo precario equilibrio si scorge la lucentezza delle cose, che è il titolo della bella postfazione di Paolo Di Paolo.

Deborah Donato