La signora di Reykjavík
di Ragnar Jónasson
Marsilio, 2022
Titolo originale: Dimma
Traduzione di Valeria Raimondi
pp. 239
€ 17,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
Hulda ha quasi sessantacinque anni, e non sempre
si sente a proprio agio nel proprio corpo invecchiato. Continua a svolgere con
passione e acume il suo lavoro di investigatrice nella polizia di Reykjavík, ma
avverte più che mai il giudizio dei
colleghi, maschi e spesso più giovani, pronti a metterla in discussione.
Anche se durante il giorno conduce le indagini “con serietà e una dedizione che, ne era consapevole, rasentava
l’ossessione” (p. 10), la sera a tratti si lascia prendere dalla stanchezza e dalla malinconia.
Bastano poche pagine per affezionarsi alla
particolare figura di detective creata da Ragnar Jónasson nel primo volume di una nuova trilogia:
nessun tratto da “eroina”, anzi, tantissima
umanità e una fragilità con cui fare continuamente i conti, Hulda è una
donna alla fine della sua carriera, alle prese con un ultimo caso da risolvere.
Il capo le ha dato libero mandato di scelta, più per levarsela di torno che per
concederle un’ultima gratificazione. L’ispettrice ha scelto allora di riaprire
un’indagine irrisolta e archiviata: la morte per annegamento di una giovane
russa, richiedente asilo, Elena.
In qualche modo, lo stato di marginalità della
ragazza, il suo isolamento, suscitano in Hulda un senso di riconoscimento, il
bisogno di trovare risposte e garantire giustizia a chi non ha più una voce:
Intrappolata tra le quattro pareti di una stanza minuscola, prigioniera, proprio come Hulda si sentiva a volte nel suo appartamento, sola, senza famiglia, senza nessuno che si prendesse cura di lei. Quella era la cosa peggiore, non avere nessuno a cui importasse di lei. (p. 35)
Estremamente scrupolosa, zelante fino all’eccesso, la donna riesce presto a
scoprire tutta la superficialità e le
mancanze di chi si era occupato precedentemente del caso, individuando
nuove piste, ma pestando anche i piedi a molti uomini influenti. Per questo
alle sue ricerche viene posta una data di scadenza: tre soli giorni, ma di quei giorni eterni che si hanno solo alle
soglie dell’estate islandese. Sono affascinanti le descrizioni di Jónasson
delle atmosfere dell’isola in una primavera che pare sospesa, ora radiosa ora
spettrale.
Era maggio e faceva buio tardi, il sole di mezzanotte era sempre più vicino. Un periodo dell’anno bellissimo e rigoglioso, in cui l’oscurità dell’inverno nordico si dissipava progressivamente e ogni giorno le serate si schiarivano progressivamente. […] A luglio, un’oscurità subdola tornava a insidiarsi nella vita degli islandesi, prima come un accenno di tramonto, finché ad agosto, un mese che Hulda non amava, la notte si ripresentava, ricordando a tutti che l’inverno si stava avvicinando. (p. 28).
La narrazione viene costruita per alternanza e sovrapposizione di diversi piani narrativi: uno segue la linea
delle indagini nel presente, uno racconta la storia di una madre e di una
figlia, i cui legami col filone principale si chiariscono solo
progressivamente, il terzo infine segue la vittima in quelle che si presumono
le sue ultime ore (e non, anche in questo caso, senza sorprese).
Mentre la vicenda di Elena si complica, invece
che chiarirsi, iniziamo a conoscere sempre meglio anche la protagonista, a
scoprire una storia personale che la rende un personaggio drammatico, tormentato e irrisolto.
Non si può dire oltre di un romanzo che tiene,
fedele al suo genere, incollati alle pagine fino a una sconvolgente,
inaspettata conclusione, che permette di guardare con nuova consapevolezza al concetto di oscurità, ricorrente, ed
evocato anche dal polisemico titolo originale (“dimma”).
Si può semmai, mettere in guardia il lettore proprio riguardo a questo: non si
avventuri nella lettura se non è pronto a vedere sconfessate tutte le proprie
previsioni, in un rovesciamento di prospettive che potrà o conquistarlo
totalmente, o lasciarlo invece spiazzato, per il magheggio con cui l’autore è
riuscito a cambiare le carte in tavola.
Carolina
Pernigo
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