di Bernardo Zannoni
Sellerio, 2021
pp. 252
€ 16 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Non mi sentivo più un animale; avevo barattato i miei istinti per dubbi e domande, per esercitare la ragione, per contraffare la mia natura. (p. 128)
A pronunciare questa riflessione è Archy, la faina protagonista di I miei stupidi intenti, romanzo d'esordio brillante, che è valso al suo giovane autore, Bernardo Zannoni, molteplici riconoscimenti da parte della critica e dei lettori (la copia che stringo tra le mani fa parte della sesta ristampa), fino ad arrivare alla finale del Premio Campiello. E chissà quali altri traguardi attendono questo romanzo?!
Se si sceglie un romanzo che ha per protagonista un animale parlante, lo si dovrebbe leggere abbracciando quella tradizione che sa di allegoria e di favola. Tuttavia, se anche si iniziasse il testo con distacco critico, sappiate che sarà impossibile mantenerlo a lungo, perché Archy ci trasporta subito nel suo mondo. Un mondo difficile da sopportare, perché è crudele e tutt'altro che fatato: un mondo dominato dai bisogni primari, dall'istinto alla sopravvivenza, al drammatico mors tua vita mea. Solo così possiamo accettare il ciclo della natura, secondo cui chi muore diventa cibo, e dunque vita, per altre creature, e la fame può condurre a considerare persino i propri cuccioli come possibili prede. E solo così possiamo comprendere perché Annette, la mamma vedova di molti cuccioli, decida di vendere suo figlio Archy a Solomon, una vecchia volpe che di mestiere fa l'usuraio. In cambio? Una gallina subito e un'altra metà a distanza di tempo, se davvero Archy si rivelerà un lavoratore indefesso, come ha promesso Annette. D'altra parte, Archy è una faina ormai zoppa, dopo una brutta caduta, e non potrebbe essere utile altrimenti alla sua famiglia durante la caccia; poco conta che lui sia innamorato di una delle sue sorelle, Louise, o che sia sempre stato gentile con tutti.
Solomon è invece una vecchia volpe avida, sempre pronta a fare baratti favorevoli per accrescere le sue riserve di cibo e di oggetti, a costo di mandare il suo grande compagno, il cane Gioele, a riscuotere il dovuto a suon di ringhi o di morsi. Non dobbiamo però pensare a Solomon solo come a un aguzzino scaltro e gretto; al contrario, nell'intimità dei suoi momenti di solitudine contempla un oggetto per lui preziosissimo, l'unico dal quale non si separerebbe mai: una Bibbia. Dopo aver, infatti, imparato il fascino delle parole scritte, Solomon si interroga sui contenuti biblici, non manca mai di intessere i suoi discorsi di versetti o di un pensiero a Dio, in attesa della sua più grande paura: la morte. Per quanto geloso di questa sua preziosa "scatola" delle parole, Solomon decide di affinare la mente di Archy, già sensibile e ricettiva, e di diventare il suo maestro. Ecco perché, benché sempre spaventato dal carattere bizzoso e imprevedibile della volpe, Archy arriverà anche a ringraziarlo («sebbene ci avesse trascinato a sé, aveva fatto di noi quello che siamo. Eravamo suoi, e lui era nostro», p. 164). Solomon ha regalato ad Archy la lettura e la scrittura, ma anche l'arte di interrogarsi sulla vita, sulla morte, su Dio, sul significato di quanto si sta compiendo, perdendo l'animalità. Siamo davanti a un dono o a una maledizione? La domanda rintocca filosoficamente nelle pagine del romanzo, che si ammanta di un che di teologico:
«Mi aveva insegnato a leggere, a scrivere, a lavorare sodo. Mi aveva aperto gli occhi sul mondo e sulla nostra esistenza, dolorosa ed effimera. Mi aveva insegnato ad adorare un Dio che non ci avrebbe salvato, ma che avrebbe salvato lui dal suo più grande terrore, sparire, come stava facendo adesso, come avremmo fatto tutti». (p. 157)
La nuova vita di Archy, per quanto impegnativa, così divisa tra lavoro diurno e lezioni di scrittura di notte, non lo assorbe tanto da impedirgli di pensare a casa: al contrario, il pensiero di Louise lo avvince, così come la nostalgia per la tana di famiglia. Tuttavia, nel corso del tempo e dopo numerose letture, qualcosa cambia profondamente Archy, la sua rilettura del passato, portandolo a riconsiderare sentimenti e scelte e rendendolo sempre più malinconico e riflessivo.
Nuovi incontri lo attendono, come quello con la bella faina Anja, che lo porta a sognare una svolta nella sua vita, o con Klaus, l'istrice che gli salverà la vita. A Klaus, in particolare, Archy penserà di donare la lettura e la scrittura, così come aveva fatto Solomon a suo tempo. Sì, perché l'arte delle parole è un dono da condividere, qualcosa che serve ad accettare meglio il destino di morte che attende tutti quanti e a scavalcarlo, durando ben oltre, grazie alle proprie memorie.
C'è una malinconia pensosa, in questo romanzo limpido, ed è la malinconia di chi comprende, poco alla volta, di non poter stringere davvero tra le mani il proprio destino; qualcosa sfugge sempre, ci sovrasta e la morte arriverà malgrado i nostri tentativi di evitarla, così come la violenza e la crudeltà si sono riversate su Archy e, in altre occasioni, lui stesso le ha perpetrate nei confronti di altre creature. Tale malinconia arriva dritta, senza circonvoluzioni, perché lo stile trasparente e senza vezzi, con una sintassi chiara, che privilegia la paratassi, esplora con immediatezza ora il genere della favola ora il campo del romanzo esistenziale. Ecco perché ci sono frasi icastiche che si stagliano accanto alle altre, illuminate come sono dalla solo apparente facilità del dettato. Anche per questo, alla fine della lettura, viene da dedicare all'intero romanzo le parole che pronuncia Solomon, a un certo punto della storia: “C'è dell'Amore qui, fra le parole. Non si legge, ma si sente” (p. 100).
GMGhioni