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Chiaroscuri dall'estate dei nove anni: "Vocedavecchia" di Elisa Victoria

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Vocedavecchia
di Elisa Victoria
Blackie, 2022

pp. 257 
€ 19,90
 
Titolo originale: Vozdevieja
Traduzione di Elisa Tramontin

 
 
La protagonista del nuovo romanzo di Elisa Victoria, “da vecchia” non ha solo la voce. La sua esperienza di vita e il suo grado di consapevolezza sono molto superiori a quelli di una bambina di soli nove anni. E se lo stile della narrazione in prima persona vorrebbe essere mimetico, quantomeno nella paratassi, non lo è sicuramente nel lessico utilizzato né nella complessità e nell’articolazione del pensiero. Marina vive circondata da adulti che la trattano come un’adulta e associa a molte abitudini tipiche dell’ingenuità infantile (il gusto per il gioco, i disegni, i cartoni animati…) attitudini decisamente precoci, come il turpiloquio, cui viene introdotta da una nonna non proprio ortodossa, o la dipendenza da giornaletti per adulti, che sottrae continuamente di nascosto al compagno della madre. L’esito è quello di un ritratto infantile inverosimile, o se non altro decisamente non convenzionale, eppure assolutamente irresistibile.
La sua visione delle cose è caustica, disincantata, a partire dall’amicizia (“la nostra amicizia è pratica e docile come quella di due tossiche che si incontrano per bucarsi e rilassarsi in compagnia, senza nulla da temere. Tra me e Tamara non c’è spazio per la noia né per l’entusiasmo. Siamo brave a passare il tempo insieme e basta”, p. 76) per arrivare alla misteriosa malattia della madre, che condiziona pesantemente la vita famigliare e si misura in quantità e qualità delle pillole:
Parlando di madri mi ha chiesto come sta la mia. Ha le mie stesse informazioni, che è malata e che cambia spesso farmaci. Mi rendo conto di avere pochissimi dati a riguardo.
“Non lo so, ora ha cominciato a prendere delle pastiglie bianche grosse così e altre gialle.”
“E sono belle?”
“Sì, stanno molto bene con quelle che hanno il rosso. Quella rosa chiaro non la vedo più, ma le blu ci sono ancora.” (p. 65)
Si inizia a comprendere che la sfacciataggine è un modo per esorcizzare la paura, o domare le cose che non si comprendono appieno del mondo circostante. Ciò che a tratti suona dissonante è il bambino che ci fa notare che il re è nudo. L’assenza di un padre che fa fugaci apparizioni e resta sostanzialmente un estraneo, i rapporti difficili con i coetanei, spesso violenti e sentenziosi, un senso di estraneità che non si riesce a dominare, né a nascondere del tutto sono alla base di una sensibilità accentuata, disinnescata da uno spiccato, a tratti commovente, sarcasmo:
Le cose non vanno troppo male. Il problema è dentro di me. Dedico la maggior parte del tempo a dissimulare con tutte le mie forze, a fingere che ciò che ci circonda non mi stranisca fino all’osso. È difficile fidarsi degli altri perché sembra che loro non facciano tutta questa fatica a interpretare un ruolo e ciò mi turba. Non direi neanche che stanno recitando, è come se per loro la vita fosse naturale e per me una forzatura. (p. 22)
Marina è piena di domande, sulla vita e la morte, sul mondo adulto, di cui attende di far parte con ansia, ma anche con un certo timore. Nel romanzo di Elisa Victoria la trama si riduce al minimo – di fatto al tempo lento e prolungato di una calda estate – perché ciò che conta, come ci suggerisce anche il titolo, è la voce della sua protagonista.
Intorno a Marina si assiepano soprattutto figure di donne (se si esclude Domingo, il compagno della madre eletto a complice e “socio”), tutte ritratte nella loro sfaccettata complessità, dalla nonna alla madre, dalla dolce, vecchia Adelina alle amichette più o meno carismatiche o prepotenti: non ci sono personaggi perfetti, ma molte persone che paiono vere, umorali, bizzose, pronte a cambiare idea. Marina si muove tra loro con uno sguardo stupito ma quasi mai giudicante e, se alcune cose non risultano comprensibili nei comportamenti altrui, vengono accolte come dati di fatto, e ci si limita a fare delle scelte in merito alla relazione.
È mia madre ma anche altre cose. Non le conosco tutte, anche se ne spuntano sempre di più dalla codina nera che di solito si disegna sulla palpebra. Mi piace pensare alle sue facce. Quella da vergine con la chioma, quella da gitana, quella da bulla, quella da Terminator di queste vacanze, con la fronte corrugata e gli occhiali da sole. È una giornata Schwarzenegger per lei. Non posso vederla al telefono ma mi basta sentirla respirare per percepire il suo stato d’animo. (p. 183)
Nonostante lo spirito dissacrante e un certo gusto per il grottesco, Vocedavecchia non appare però come una commedia, anzi, si percepisce sempre nelle parole di Marina un’ombra di malinconia. L’autrice è abile nel restituire il pensiero contraddittorio di una bambina che cresce, che si trova in bilico in quella zona d’ombra collocata tra gli ultimi scampoli dell’infanzia e le prime avvisaglie della adolescenza. Il determinato, quasi feroce, percorso di ricerca di sé, il continuo interrogarsi sulla propria identità, sul proprio sentire difficile, strano, diverso da quello di tutti i coetanei, sono l’elemento trainante dell’opera, che proprio in quest’ottica di formazione divergente deve essere letta. 
 
Carolina Pernigo