Altro nulla da
segnalare
di Francesca Valente
Einaudi, 2022
pp. 208
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Da una visita, che diventano poi molte visite, dello psichiatra Luciano
Sorrentino, e dai “rapportini”, piccoli diari di bordo del Servizio
psichiatrico di diagnosi e cura dell'Ospedale Mauriziano di Torino, uno dei
primi “reparti aperti” nati in Italia dopo la riforma di Basaglia, Francesca
Valente trae l’ossatura della sua opera, vincitrice del Premio Calvino 2021 e del Campiello Opera Prima 2022.
In
Altro nulla da segnalare, Valente
tenta un’operazione ardita, quella di piegare
la lingua alla resa del pensiero dei degenti del “repartino”; ecco allora
che la parola si fa duttile, la sintassi si adatta plasticamente al sentire dei
diversi soggetti. “Ciascuno […] è
assorbito dalla propria visione” (p. 18) e questo non vale solo per i
ricoverati, ma per i medici, gli infermieri, i famigliari. L’opera, con i suoi quadri giustapposti, restituisce una molteplicità di punti di vista sul reale
e l’autrice si fa regista, armoniosamente li raccorda. Le immagini che si
susseguono tra le pagine hanno i colori e la visionarietà dei dipinti
chagalliani. Le figure che attraversano diagonalmente la narrazione sono come
il violinista verde, la coppia di sposi volanti.
Si
arriva a una nuova definizione, più
variegata e complessa, certamente non definitiva, del concetto di pazzia:
È questa la differenza più grande tra le persone: […] alcuni le cose le pensano, è naturale, altri ritengono sia opportuno dirle, quelle cose che in testa non sono strane ma quando escono non si sa che effetto possano avere. Quindi certi stanno fuori e certi altri stanno dentro. E non è detto che quelli fuori abbiano idee migliori di quelli dentro. (p. 9)
La pazzia ha a che fare con la poesia, con il voler riscrivere il mondo di
fuori, almeno dentro la propria mente. E allora, forse, chi è veramente in gabbia è chi conduce una vita routinaria e
conformata, chi non si interroga mai e non riesce a guardare oltre la
superficie delle cose.
Se
alcuni capitoli hanno natura corale e raccontano la vita all’interno del
reparto, altri ci portano fuori, ripercorrendo i passi e le vite di alcuni
degli ospiti, mostrandocene le lente (o violente) derive. È questo il caso di
Debernardi, che si confronta con una tigre e si trova poi nella stessa realtà
di sempre, senza aver acquisito superpoteri di sorta; o di Libera, che dopo
aver perso il suo neonato inizia a ritirarsi sempre più in un luogo
inaccessibile, tutto suo.
Il
titolo, “Altro nulla da segnalare”,
espressione con cui spesso si chiudevano i rapportini da cui trae spunto e
linfa l’opera, crea un’interferenza con un’altra nota formula di chiusura “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.
In questo caso, però, l’istanza è profondamente diversa, perché se fuori dal
reparto vengono obliate, a volte volontariamente rimosse le esistenze di chi vi
è accolto, al suo interno ogni
singolarità conta e viene accolta, nella sua specificità, nella sua
“stranezza”, con le sue abitudini, per quanto sgradevoli possano essere. Nel
narrare questi eventi, queste persone, Valente riesce nell’operazione
tutt’altro che scontata di disinnescare
il potenziale retorico. Al contempo, non rinuncia a una costante attenzione all’umano,
illuminata a tratti da lampi di involontaria comicità, come quando l’infermiere
Tornior si presenta all’uomo di Pavia nei panni di Dio, o in conseguenza degli
stralci dei rapportini:
20-04-1981La paz. Savoia si è infilata due volte nella vasca da bagno (vestita e pure nuda). Lo fa tutte le volte che vengono i parenti, perciò gli abbiamo detto che ai fini della terapia sarebbe meglio se venissero il meno possibile, se invece il loro intento è che la paz. si lavi molto allora continuino così. (p. 78)
Dai racconti di cui si costituisce l’opera non bisogna aspettarsi una
conclusione lieta o pacificante, perché “la vita non conclude”, come ricordava
Pirandello: quel flusso, quell’energia, quell’adesione tutta interiore e non
riconosciuta di cui lui parlava, si ritrova nei pazienti del reparto, colti in
una fase di transizione in cui
devono essere ricollocati in una società che non li riconosce e di cui non si
sentono parte. Alcune pagine consentono un excursus storico sugli effetti della
riforma di Basaglia, la cui applicazione, spesso efficace e liberatoria,
talora invece radicale e indifferente alla volontà dei pazienti, viene discussa
e problematizzata. Inframezzate alle storie dei degenti, si inseriscono senza
soluzione di continuità quelle di chi se ne occupa, come il grande e solido
infermiere Tornior:
Un camminatore, un contadino, un cacciatore. Mai riluttante alla fatica. Il repartino rilasciava sulle sue spalle molto del suo peso, quando lui era lì sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa e la baracca avrebbe retto. (p. 151)
Particolarmente forte, collocato quasi in coda all’opera, è il ritratto del dottor Sorrentino, anima
pulsante dell’Servizio psichiatrico del Mauriziano di Torino, ma anche
ispiratore dell’opera di Valente. Dalle righe del capitolo a lui dedicato,
emerge la sincera stima dell’autrice per un uomo che ha voluto vedere nei
diversi e nei malati prima di tutto dei soggetti
liberi e pensanti, che li ha affiancati e accompagnati cercando di assumere
il loro sguardo per poterli meglio comprendere. Lo psichiatra ha portato avanti
con coerenza i suoi valori, non sempre popolari, come la
ricerca dell’empatia, della mitezza […] contro la fretta e l’approssimazione: la vita, il desiderio di abitare la terra in pace, in opposizione al fervore e all’intolleranza; il bisogno di possedere anima ed esattezza, a costo di rimanere travolti dallo smarrimento. (p. 164)
O
ancora ha considerato la conoscenza profonda dell’uomo fondamentale per la
pratica della psichiatria, allo scopo di “compiere
gesti di corroborante gentilezza verso creature fragili, deteriorabili, anche
mostruose” (p. 166).
Quella
di Valente è un’opera ibrida, composita,
che unisce a una solida base documentaria lo slancio lirico della narrazione
romanzesca. È anche un’opera che commuove, per la delicatezza con cui entra
nelle esistenze minime dei suoi protagonisti e li accompagna per un breve pezzo
di strada, nella convinzione che “qualcosa
di tangibile debba sempre restare a testimonianza di chi ha attraversato questa
terra” (p. 153).
Carolina Pernigo