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«L'amore per la città, come per una persona, vince sempre»: intervista a Jhumpa Lahiri

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Jhumpa Lahiri (Londra, 1967) è una scrittrice americana di origine bengalese. Ha conseguito, all’Università di Boston, dei Master in Inglese, in Scrittura e Letterature comparate, e un dottorato in Studi rinascimentali che la avvicina alla lingua italiana. Ha esordito nel 1999 con la raccolta di racconti L’interprete dei malanni, che ha ottenuto il Premio Pulitzer per la narrativa. Trasferitasi a Roma nel 2011, pubblica nel 2015 il suo primo libro in italiano (In altre parole, Guanda): seguono Dove mi trovo (2019), Racconti italiani, la raccolta di poesie Il quaderno di Nerina e, di recente, Racconti romani.

Incontro Jhumpa Lahiri un pomeriggio di settembre, al caffè della biblioteca Salaborsa a Bologna, poco prima della presentazione del suo nuovo libro, Racconti romani (che abbiamo recensito qui). Arriva vestita di blu, con qualche sottile gioiello dorato: è elegante, delicata nei movimenti, sorridente. È stata incredibilmente disponibile a rispondere alle curiosità che il suo libro ci aveva suscitato: dà grande peso a ogni domanda, pondera con cura e risponde con fermezza. 

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Racconti romani
di Jhumpa Lahiri
Guanda, 2022

pp. 256
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

LEGGI LA RECENSIONE
di Michela La Grotteria

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Partiamo dal nuovo libro, Racconti romani, il cui titolo è in dialogo con Moravia e con le sue due omonime raccolte di racconti. Perché proprio Moravia si meritava un omaggio diretto?
Perché Moravia è stato il primo autore italiano che mi ha fatto strada: sono entrata nel linguaggio letterario grazie a Moravia. Ma anche perché i miei racconti sono molto in dialogo con i suoi e con una Roma diversa, degli anni ’50, però sempre una Roma molto familiare: c’è un legame non solo fra i nostri racconti, ma fra le due città. Roma resta una città che va avanti, cambia, ma resta sempre inequivocabilmente lei. 

Il racconto, tra l’altro, è la forma con cui ha esordito; poi ha vinto il premio PEN Malamud per la distinzione nel racconto e si è interessata a questa parte di tradizione letteraria italiana in Racconti italiani. Che valore ha il racconto come genere letterario, rispetto al romanzo? 
È più vicino alla poesia: è una forma più essenziale, è più sorprendente, può prendere qualsiasi forma. Può raccontare una mezz’ora nella vita di una persona, ma potrebbe anche racchiuderne tutta la vita; può contenere vari punti di vista o una sola prospettiva. È una forma molto elastica ma anche rigorosa: è difficile mettere lo stretto necessario in un racconto. A me piace questo limite, mi piace la disciplina che richiede. 

Lei sfrutta quest’elasticità: alcuni racconti sono di poche pagine, ma quello centrale, La scalinata, occupa un’intera sezione del libro. 
Sì, c’è un racconto molto più elastico, che comprende sei episodi, ma comunque c’è la cornice a tenerli uniti. E in ogni caso, anche se è più lungo, il racconto è qualcosa che si legge in un’unica seduta. È difficile con il romanzo fare così, anche se ci piacerebbe a volte leggerlo tutto d’un fiato. In un racconto puoi proprio immergerti e ne esci fuori, idealmente, colpito. 

La sua Roma è un luogo, oltre che di arte e ricchezza, anche di contrasti, povertà e ingiustizie. Un personaggio, ne La scalinata, dice di amare e perdonare Roma in ogni stagione: anche per lei è così? E perché è giusto perdonare a Roma tutte le miserie a cui fa da sfondo? 
Perché l’amore vince. L’amore per la città è come quello per una persona: perdoni anche il peggio perché c’è qualcosa che va oltre tutti i problemi, oltre il lato problematico nella città. 

Un tema che mi sembra importante nel libro è il silenzio, spesso imposto a stranieri e straniere che non hanno la possibilità di parlare e difendersi. È una situazione che riscontra essere particolarmente grave in Italia? 
L'evento del 23 settembre in Sala Borsa a Bologna
Da sinistra: Simona Lembi e Jhumpa Lahiri
No, è sempre così. Chi arriva e si trova in una situazione precaria – non è cittadino, non ha una vita regolare, stabile, legale in un posto – di solito non parla, perché facendolo ti metti più a rischio. Spesso ti dici: lasciamo stare, perché arrivano i carabinieri e diventa pericoloso: sono persone ai margini. Anche per me negli Stati Uniti è stato così. Tutti dopo hanno preso la cittadinanza, mia sorella è nata lì quindi lei era già cittadina, ma a me i miei genitori raccomandavano: «Non parlare troppo, non suscitare troppe reazioni, perché noi siamo ospiti in questo Paese». Quando sei ospite ti comporti in un certo modo, non fai come ti pare, perché non sei a casa tua. Quindi, certo, in questo libro c’è il tema del silenzio, di chi tace perché purtroppo preferisce tacere che parlare troppo. Poi il tema del silenzio mi interessa da sempre: il tema della comunicazione, il non detto, l’interpretazione, quello che non viene capito... Muri, confini, tutto ciò che si crea anche tra generazioni, è sempre stato il mio grande tema. Sono una grande fan ad esempio di Antonioni, perché i suoi film hanno al cuore questo problema. 

Le cose viste di nascosto e orecchiate di sfuggita sono spesso motore della narrazione nel libro. Lo scrittore protagonista di Le feste di P. dice di essere intrigato da un gruppo di stranieri che vede come «potenziali soggetti narrativi»: anche lei trae materiale per la narrazione da ciò che vede e che la colpisce ogni giorno? 
Tutta la vita è potenzialmente materiale per uno scrittore, perché lo scrittore si sente sempre fuori luogo: quando vai a una festa, a una cena, un incontro, guardi, osservi, ti colpisce qualcosa e forse anni dopo  ne emerge un racconto. L’inconscio ti sorprende, non è sempre ovvio voler scrivere di un particolare tema. Le cose devono stare dentro, poi intervengono vari filtri, come la memoria e l’immaginazione. 

In esergo ci sono due brani latini, uno da Livio e l’altro da Ovidio. Lei conosce e ama molto il latino, che ha studiato prima dell’italiano, ma in Italia noi abbiamo troppo spesso dibattiti sulla necessità di conservare lo studio delle lingue classiche a scuola. Perché continuare a studiare i classici? 
Perché nei classici c’è tutto. Ovidio parla di immigrazioni, cambiamenti climatici, parla di problemi di genere: tutto quello che sta nell’opera sta anche nei titoli di qualsiasi giornale. È estremamente rilevante anche per la bellezza, la poesia, la scrittura, perché testimonia una città che non esiste più. Perché mantenere questa chiesa meravigliosa, quando possiamo costruire un altro edificio abbastanza funzionale? Perché la bellezza che troviamo in quelle opere è eterna. Poi un’altra cosa è interessante: Livio era uno storico, ma scriveva letteratura; Ovidio era uno scrittore e parlava di storia: ciò che è molto moderno, anche postmoderno, volendo. Sono sempre in dialogo con i classici nei miei libri. 

Il suo primo libro in italiano, In altre parole, è uscito sette anni fa, e da allora ha pubblicato in questa lingua anche altro, tra cui un romanzo e una raccolta di poesie. Direbbe che la maggior confidenza con la lingua abbia modificato il suo stile di scrittura? 
Sono più consapevole della lingua quotidiana, di come si parla e come si usa. Ma continuo a leggere l’italiano classico, non leggo letteratura contemporanea, sono ancora indietro: sto sempre con l’italiano di Pavese e lì trovo delle parole e una costruzione delle frasi che ammiro e cerco di inserire nella mia scrittura. Rimane un italiano diverso, ma ogni scrittore deve trovare il suo linguaggio, perché questa è la scrittura: vai oltre la lingua, fai un altro gesto con la scrittura per plasmarla, modificarla o metterla in discussione. È quello che io cerco di fare. 

Parliamo di traduzione, di cui lei si occupa anche. È uscita il 13 settembre una nuova traduzione americana dei Promessi Sposi a cura di Michael Moore, con una prefazione firmata da lei. Perché crede sia necessario diffondere Manzoni all’estero? 
Perché è una mancanza non averlo in inglese in una traduzione buona. È un grandissimo libro, che è sempre molto attuale: a parte la pandemia, è un libro pieno di stranieri, di migrazioni, pieno di forestieri, è un libro che riguarda il nostro momento, la nostra politica, tutte le polemiche. È un libro che mi sembra avere un significato molto potente. 

E magari in America circolerà anche tra i lettori non specializzati: qui in Italia la sua diffusione risente un po’ della canonizzazione scolastica. 
Sì, esatto, potrebbe avere una nuova vita. 

Nel 2021 ha ricevuto all’Università di Bologna una laurea honoris causa in Traduzione specializzata, e di recente è uscito un suo saggio sulla traduzione (Translating Myself and others). Cosa comporta tradursi da sola? 
È un esercizio straniante, che richiede un atteggiamento di distacco. Tu scrivi un libro poi lo traduci e devi comportarti come fosse un libro altrui: devi spaccare nettamente la persona che ha scritto il libro e quella che lo traduce, che sei sempre tu. Bisogna accettare fino in fondo il lavoro che è già fatto: c’è sempre la tentazione di migliorare, modificare. 

C’è anche il rischio di scrivere un altro libro... 
C’è quel rischio. Alcuni scrittori che fanno quest’operazione la fanno per l’opportunità di fare un bis, di aggiungere, di modificare. Oppure, accetti quello che c’è e ne fai un’altra versione. È un gemello che arriva molto dopo, nel tempo.

Intervista a cura di Michela La Grotteria

Foto di copertina dell'autrice scattata da © Marco Delogu e riprodotta con l'autorizzazione della casa editrice; le altre foto presenti nell'articolo sono state scattate da Michela La Grotteria durante l'evento in Sala Borsa.