Lucidi ritratti di una Roma caotica: i «Racconti romani» di Jhumpa Lahiri




Racconti romani 
di Jhumpa Lahiri 
Guanda, settembre 2022 

pp. 189 
€ 17,00 (cartaceo) 
€ 9,99 (ebook) 


Jhumpa Lahiri non ha bisogno di provare ancora quanto sia innamorata dell’Italia e della sua lingua, o quanto sia brava a scrivere, nella nostra lingua, testi lettarari che hanno tutto il diritto di rientrare nella migliore narrativa italiana contemporanea. Non ne ha bisogno, però lo fa. 

Dopo il suo primo libro in italiano, In altre parole, uscito nel 2014, e Dove mi trovo (2018), aveva anche già curato una preziosa raccolta di racconti firmati da grandi autori della narrativa del Novecento italiano. Lo scorso tredici settembre, poi, è tornata in libreria con Racconti romani: un testo in cui scende direttamente in pista, confrontandosi con i suoi maestri e offrendo un tributo – ma anche una critica acuta – alla città che l’ha conquistata anni fa. Nata nel 1967 a Londra, ma di origini bengalesi, consegue all’Università di Boston numerosi titoli, tra cui un dottorato in studi rinascimentali; dopo un periodo di studio a Roma, all’American Academy, decide di restare. Attualmente, trascorre a Roma tutti i mesi in cui non è impegnata a insegnare a Princeton. 

Racconti romani è composto da nove storie, con protagonisti diversi ma accomunati da una caratteristica: si tratta di persone che hanno scelto di vivere a Roma pur provenendo da altri luoghi, altre realtà sociali e culturali. Il libro si sarebbe potuto chiamare “Racconti sui romani”, tanto i suoi personaggi sono iconici: migranti clandestini, piccolo borghesi in cerca di un rifugio dai propri doveri oltreoceano, stranieri di seconda generazione, studentesse straniere, vedove, domestiche, espatriate. Vivono a Roma senza appartenervi del tutto, una condizione che la stessa autrice sente di condividere. «E comunque per me sono tutti romani», ha detto Lahiri a Michele Gravino, in una recente intervista per Repubblica. Perché Roma è metamorfica, è una metropoli ramificata in cui tanti nidificano, pochi si sentono pienamente aderenti al tessuto della città, ma tutti, con la propria esperienza, contribuiscono ad arricchirne lo spirito. 
Erano così diversi dal gruppo cui appartenevo io: persone nate e cresciute a Roma, persone che lamentavano il degrado preoccupante della città senza poter mai andarsene. Gente per cui semplicemente cambiare quartiere a trent’anni – andare in una nuova farmacia, comprare i giornali a una nuova edicola, sedersi ai tavolini di un nuovo bar – significava una partenza, un grande spostamento, uno strappo. 
L’omaggio a Moravia nel titolo è quantomai azzeccato: nelle sue due raccolte omonime, dei tardi anni ’50, lo scrittore raccontava le vite dei romani risputati dalla guerra, operai, proletari e piccolo-benestanti, alle soglie Boom economico. Settant’anni dopo, la demografia di Roma è cambiata e Lahiri cerca di restituirla così come la vede. I suoi personaggi abitano i non-luoghi di Roma, quelle periferie tappezzate di palazzoni popolari nelle quali si assiste al rinvigorirsi di focolai neonazisti: partono dal basso, radicando l’odio e il razzismo tra gli abitanti di un condominio in cui si è trasferita una famiglia di immigrati senza cittadinanza: 
Credo frequentassero il gazebo lungo la strada con due bandiere incrociate dove distribuivano dei volantini alla gente che passava e forse partecipavano a qualche manifestazione, tutti con il braccio teso verso l’alto. Poi un giorno, mentre rientravamo tutti e sette a casa, gli altri inquilini non ci avevano lasciati salire. 
È una Roma insolita quella raccontata da Lahiri: quasi mai viene menzionato un monumento, un luogo riconoscibile. Le scene significative si svolgono in ambienti anonimi, una coda alle poste, un ponte qualsiasi sul Tevere, ville circondate da un verde non meglio collocabile: garanzia del fatto che Lahiri non vede Roma con lo sguardo superficiale e con l’idea stereotipata che può avere un ricco visitatore straniero, ma guarda invece nei luoghi giusti, dove abitano gli invisibili. Lahiri ama incontrarli, parlare con loro, raccoglierne le storie: anche l’oralità è una questione centrale dei racconti, nei quali spesso ci sono segreti sussurrati, conversazioni captate di sfuggita, parole scritte che non si ha il coraggio di pronunciare, espressioni lanciate in aria come quella conclusiva («Che città di merda» dice una di noi, spezzando il silenzio. «Ma quant’è bella»). 

Nel 2019, durante l’incontro con l’autrice al Taobuk di Taormina, ci si era molto soffermati sullo stile di Lahiri. Si era detto che, pur non essendo madrelingua italiana, aveva una competenza dell’italiano superiore a molti parlanti nativi: Dove mi trovo aveva una sintassi lenta, dolce, vocaboli ricercati con cura in modo da scegliere sempre la sfumatura di significato più appropriata per ogni contesto. In Racconti romani si ritrova il ritmo cullante della prosa di Lahiri, ma il repertorio lessicale si fa più sferzante, la sintassi più breve: è il linguaggio dei tanti romani che prendono parola nel libro, senza escludere le espressioni grezze e sgrammaticate dei giovani delinquenti di periferia. 

Tanti hanno preso la penna per parlare di Roma. È stata lo scenario della guerra e poi della “dolce vita”, un paradiso per il miglior cinema e per l'editoria italiana. È stata il luogo degli scandali politici e sociali, della spazzatura riversata a valanghe per strada. È da sempre un luogo controverso, in cui coesistono realtà in conflitto: un libro come La città dei vivi di Nicola Lagioia ci ha aperto gli occhi sulla possibilità della violenza annidata dove meno ce lo si aspetterebbe. Lahiri riconosce e rappresenta anche quest’aspetto (sì, Roma è anche la città in cui, se si è di pelle non bianca, si può ricevere un proiettile da due ragazzi annoiati in motorino), ma non per questo ama di meno questa città «che, pur essendo conosciuta, resta piena di segreti e scoperte che si illuminano per caso, lentamente».

Michela La Grotteria