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«Chiunque sopravviva a qualcuno commette un tradimento»: "Le braci", il capolavoro senza tempo di Sándor Márai, il dialogo con la contemporaneità

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Le braci
di Sándor Márai
Adelphi, prima edizione 1998

A cura di Marinella d'Alessandro

pp. 181
€ 12 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)


Ora che aveva superato la sorpresa si sentiva improvvisamente stanco. Si trascorre una vita intera preparandosi a qualcosa. Prima ci si sente offesi e si vuole vendetta. Poi si attende. Da molto tempo, ormai, attendeva. Non sapeva più a che punto il risentimento e la sete di vendetta si fossero trasformati in attesa. (p. 21)
È il 1942 quando Le braci, il romanzo di Sándor Márai, appare per la prima volta in libreria; molti anni, vicissitudini editoriali e personali, occorreranno prima che venga tradotto in italiano (la prima edizione Adelphi è del 1998) e che al suo autore sia riconosciuto il ruolo di primo piano nella narrativa mitteleuropea. Oggi è comunemente considerato un classico, un romanzo che non smette di affascinare i lettori per la prosa ricercata, la stratificazione di spunti e riflessioni che contiene, la solidità dei temi che si rincorrono sulla pagina. E per quegli interrogativi che non trovano una risposta univoca dentro il testo, similmente agli stessi che ci poniamo per alcune delle questioni più filosofiche e morali che scaturiscono da tale lettura. Ho letto questo romanzo grazie al gruppo di lettura che coordino, quando metà di loro lo aveva già fatto diversi anni prima mentre altri, come me, conoscevano la fama di questo testo ma dovevano ancora scoprirlo. Alla fine della lettura, incantata da una prosa che ha il respiro del classico senza tempo – così abilmente resa dalla cura di Marinella d’Alessandro – mi rendo conto che è esattamente il tipo di testo da leggere proprio in un gruppo di lettura tante sono le questioni su cui confrontarsi. E allora lo facciamo anche qui, in questo articolo che spero possa essere un dialogo fra me e voi, lettori di CriticaLetteraria.

In meno di duecento pagine Márai consegna al lettore una storia tesa, per buona parte costruita come un monologo alternato fra i due protagonisti, Konrad ed Henrick, un tempo amici fraterni che si ritrovano nel castello ai piedi dei Carpazi proprietà della famiglia di Henrick, dopo una separazione durata quarant’anni. Il presente si intreccia al passato evocato da entrambi, per rivelare la storia di orgoglio e presunzione, il desiderio di vendetta e verità, che li ha condotti fino a lì. Qualcosa si è rotto tra i due molto tempo prima, il fantasma di una donna aleggia fra quelle stanze che per una notte intera – questa la durata del loro incontro – sono abitate dagli spiriti del passato: loro due ragazzini all’accademia militare, le differenze di classe, le ambizioni e le passioni segrete; l’età adulta, le responsabilità, i desideri repressi, le mancanze e le solitudini. La crepa fra loro si spalanca in seguito a una battuta di caccia e l’interrogativo che tormenterà Henrick di lì in avanti, quello che fa precipitare gli eventi e li separa per sempre, fino a quella notte, che appare come un resa dei conti. Ora, che sono due uomini ormai anziani, ora che tutto è compiuto e non ci sarà un’altra occasione. Per incontrarsi, per conoscere la verità. Per vendicarsi.
Sapevamo entrambi che ci saremmo incontrati ancora una volta, e che poi sarebbe stata la fine. Della vita, e naturalmente di tutto ciò che ha dato un senso alle nostre vite e le ha mantenute in tensione fino a questo momento. Perché un segreto come quello che esiste fra te e me possiede una forza singolare. Una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione. (p. 88)
È la storia di un’amicizia ma anche di un amore, della perdita e dell’impossibilità del perdono, delle sue conseguenze, delle scelte che facciamo e che determinano le nostre vite.
Gli uomini contribuiscono al loro destino, a determinare certi eventi. […] Non è vero che il destino si introduce alla cieca nella nostra vita: esso entra dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato, facendoci da parte per invitarlo a entrare. (p. 139)
Non voglio privare il lettore del piacere di scoprire come si evolve la vicenda, quali segreti e domande verranno rivolte alla luce delle candele in quella lunga notte. Ma voglio soffermarmi su alcune delle riflessioni suscitate dalla lettura, a partire dall’amicizia che lega i due protagonisti, le sue implicazioni. Ciò che segna profondamente quel rapporto affonda le radici molto prima dei fatti che li hanno divisi ed è nella diversa natura dei due, nell’appartenenza a due classi sociali distinte, nel senso di colpa e nell’orgoglio che determina fin da principio un rapporto squilibrato, mai davvero intimo. Henrick appartiene a una famiglia potente, ha ricchezze e una strada ben delineata di fronte a sé; è un uomo solido, non verrà mai meno ai propri doveri, non tradirà mai i propri principi neanche quando gli costeranno la felicità, neanche quando non esisterà più niente di quello per cui ha combattuto. Konrad proviene da una famiglia che non ha più nulla se non quell’unico figlio a rappresentare la sola forma di riscatto possibile; non amerà mai la vita militare, non sarà mai un soldato nello stesso modo in cui invece lo è l’amico. Ha l’animo dell’artista, ama profondamente la musica, le note toccano corde della sua anima in forme che non possono essere comprese da coloro i quali non possiedono pari sensibilità, semplici spettatori di un connubio ideale.
Ma Konrad possedeva un rifugio dove l’amico non poteva seguirlo: la musica. Era come se disponesse di un nascondiglio segreto dove la mano del mondo non poteva raggiungerlo. (p. 46)
Quando tutto va in frantumi, Henrick si rifugia nel profondo della sua proprietà, lontano dal mondo e dalla vita; Konrad parte per l’estremo Oriente, senza una parola, senza un addio, fuggendo come «un vigliacco» ha detto qualcuno. Passeranno la vita in attesa del ritorno al castello, un ultimo incontro in cui cercare la verità. Non soltanto conoscere ciò che i fatti da soli non bastano a spiegare, ma accettare le proprie colpe e il momento esatto in cui ogni cosa è andata perduta.
Devo conoscere la ragione di quanto è accaduto, scoprire cos’è che scava un abisso fra due uomini e dove ha inizio il tradimento. […] E anche quale colpa abbia io in tutto ciò. (p. 138)
A segnare una distanza incolmabile tra i due è anche, si accennava, una visione differente del mondo cui appartengono e che era ormai andato in frantumi. E qui, nelle riflessioni su patria, appartenenza, fedeltà, la vicenda personale dell’autore si intreccia alla letteratura ma, ancora più urgente e sentito diventa il dialogo con la contemporaneità: cosa implica la dissoluzione della propria patria per l’uomo senza più una chiara identità e appartenenza? Come influiscono nel cuore di ognuno, nella vita privata e quotidiana, i confini tracciati dal potere? Patria è un luogo o un sentimento?
«La mia patria» dice l’ospite «non esiste più, si è disintegrata. La mia patria erano la Polonia e Vienna, questa casa e la caserma giù in città, la Galizia e Chopin. Cosa è rimasto di tutto ciò? Il misterioso elemento che unificava ogni cosa ha esaurito il suo effetto. Tutto è caduto in pezzi, sono rimasti solo i frammenti. La patria per me era un sentimento. Questo sentimento è stato offeso.» (p. 80)
È la risposta di Konrad, mentre l’amico rimane aggrappato al proprio giuramento anche oltre la fine. Di questa patria perduta Márai ha portato il peso in ogni peregrinazione del suo volontario esilio e i suoi libri a lungo tempo messi al bando in Ungheria. Ci sono ovunque nel mondo vicino e lontano uomini e donne che hanno visto i confini della propria patria cancellati dal colpo di spugna dei potenti, esuli o costretti a rinnegare la propria cultura e tradizioni, a dimenticare. Eccola, la forza di un classico senza tempo. Nella storia di Konrad ed Henrick, nelle parole che restano sospese e nelle domande che non troveranno risposta, c’è il respiro della grande letteratura del Novecento. E il dialogo mai esaurito con i lettori.

Debora Lambruschini